DAVIDE MANTI   [dademanti@libero.it] [ Note Biografiche ]  
    CA(U)SE  PERTURBANTI
    ARCHITECTURE ON HORROR SCREEN
    Tesi di laurea facoltà di Architettura di Genova
    Relatore: Prof. GAZZOLA  
    Presentazione: Arch. Fabio POGGI

 

 

 
    PREMIO FILIPPO SACCHI PER TESI DI LAUREA SUL CINEMA 

 

 
    DIAPOFILM di  PRESENTAZIONE  
 

 

Case perturbanti, cause perturbanti: la "u", tolta e aggiunta in modo iterativo, come perno su cui far ruotare una tesi di architettura.

L'occasione colta da Davide Manti è quella di compiere una ricognizione su ciò che la casa cela dietro / dentro di sé: rinvenire il doppio della casa, il perturbante non-domestico (un-heimlich) - parassita che erode la casa, ma che è causa stessa della sua fondazione - attraverso i fotogrammi di un secolo di cinema horror .

Il pro-jectum è qui duplice: la proiezione sullo schermo cinematografico è, a sua volta, proiezione sullo spettatore di quei fantasmi che nelle architetture dei film horror, più che altrove, è facile se non divertente riconoscere.

Doppia è anche la strumentazione disciplinare utilizzata da Manti: testi di teoria e critica architettonica (è il caso di Vidler) e, tra gli altri, riferimenti psicanalitici (Freud) e sociologici (Morin).

Doppio il movimento - utilizzando un'immagine decostruzionista - attuato in questa tesi, attraverso la rilettura filologica di un vasto archivio di testi e immagini: il perturbante dell'architettura e l'architettura del perturbante, in versione sdoppiata / sfocata, come terreno fertile per una ricerca universitaria.
arch. Fabio Poggi

 

 
   
 

 

 

Ca(u)se Perturbanti. Architetture inquiete, Strutture dell’angoscia, haunted houses nell’immaginario sceno-cinematografico horror. Fonti, figure, temi dalle origini al 2001.

 

 

Il Titolo della tesi indica già il particolare ambito multidisciplinare che si è tenuto conto nell’indagine

 

CA(U)SE PERTURBANTI

 

Significa che si presuppone l’esistenza e si indagano

CASE (abitazioni, architetture…) come  

CAUSE  di un sentimento esplicitato pienamente nel ‘900: il Perturbante freudiano.

In che senso  “coesistono” questi due concetti e dove (in quale rappresentazione)?

 

1. La casa esiste: spazio domestico, quindi per antonomasia FAMILIARE, cioè a cui siamo abituati, centro del nostro mondo, della nostra vita.

La casa costruita (autocostruita nella migliore delle ipotesi) è un nocciolo concretizzato delle nostre abitudini, in diretta corrispondenza con il nostro corpo, il nostro pensiero, il nostro modus vivendi: questo è dovuto proprio al suo essere a stretto contatto, come emanata, direttamente dal corpo/cervello degli abitanti costruttori in un rapporto definibile osmotico tra

- abitante e “suo” spazio.

- spazio connotato da una presenza (progettato/emanato) e un pubblico che lo percepisce, fruisce, visita.

Questo perché in quanto umani entriamo empaticamente in contatto con un oggetto esterno, e viceversa, riusciamo ad investire di un nostro stato d’animo l’oggetto secondo un contatto “narcisistico” che è proprio dell’umano.

(da queste considerazioni prende l’avvio l’interesse per le indagini di stampo antropologico di Mary Douglas, I simboli naturali, mutuati dalle ricerche socioantropologiche di Durkheim e Mauss, in Sociologia e antropologia, anni ’70)  

 

Ecco perché la casa si presta così bene a considerazioni antropologiche/culturali (sono in grado di testimoniare molti aspetti di un popolo, ad es. le Necropoli etrusche), estetiche (l’evoluzione delle forme e dei volumi, in relazione al pensiero del costruttore e degli abitanti, pensiamo a Wright e alle sue “case dal terreno”, Usonian Houses), ma anche psicologiche (è il caso delle stanze di chi è scomparso o dei serial-killer che contengono in sé indizi validi ad ottenere dati utili proprio sull’abitante).

Questa casa-nocciolo spaziale, tipologicamente riconducibile alla capanna primitiva e alle sue manifestazioni più o meno complesse e aggregate e comprendente tale sistema di corrispondenze, è assunta come profilmico proprio dalla scenografia horror, dagli esordi dei pionieri del cinema (Méliès, De Chomon, Keaton, v. filmografia) all’espressionismo tedesco anni venti, soprattutto per stravolgerla, poi ancora nell’horror dei vari castelli della Universal (anni ’30) ma già contaminato in America proprio da quelle istanze tramite la fuga dei registi dalla Germania ed Europa nazista, recanti con sé germi dell’espressionismo ed instillandoli direttamente anche nel noir (Fritz Lang ne è un esempio lampante) e nei vari sottogeneri dei B-movies, come maniera.

 

2. La Casa così intesa corrisponderebbe ad una condizione ideale che però nel corso del ‘900 ci appare notevolmente incrinata. Più che incrinarsi a dire il vero, l’esperienza umana legata allo spazio domestico si è arricchita di quei temi legati all’inquietudine, alla nostalgia (per una inidentificata “reverie” ad es. di Bachelard), all’ansia dello stare nel mondo di heideggeriana memoria (consideriamo l’ascesa della società industriale, il clima di ricostruzione postbellico e le città disseminate di rovine uguali in ogni tempo, quindi figurazioni con cui non molte generazioni fa si era a stretto contatto), ai temi legati al nomadismo, all’essere e sentirsi apolidi, dovunque mai a casa, sperduti.

 

Tra queste emozioni inquiete, incrinanti, ne emerge una, particolare, in un certo modo legata a tutte ma mai completamente riducibile ad una sola di esse, si chiamino paura, angoscia, ansia, disorientamento ecc.

Questo sentimento è il Perturbante e fu indagato pienamente da Sigmund Freud nel 1919 nell’articolo omonimo sulla rivista di psicanalisi Imago, a Vienna. Ma la cosa più importante da sottolineare è che la parola tedesca che impropriamente l’italiano rende con “perturbante” ci aiuta a chiarire tutta la genesi di questa ricerca, e del perché la scelta sia caduta proprio su quel nucleo spaziale che è la casa, e la casa perturbante.

Un – Heim –lich, cioè Non Casalingo, cioè non familiare, non abituale. Ma la ricca ricerca riportata da Freud nel suo saggio ci indica che questa parola è assai più ambigua, più potente in virtù dell’ambiguità. Perché in tedesco Heimlich, familiare, casalingo, diviene anche sinonimo di sinistro, di nascosto (perché è proprio in casa che si possono nascondere le cose più turpi e minacciose). Quindi Heimlich diventa sinonimo del suo contrario, indicando quindi come il Perturbante si riveli essere (in una definizione data già dal poeta Schelling) ciò che sarebbe dovuto rimanere nascosto e invece è venuto alla luce”.

Questo mette l’accento su tutto un mondo che della casa fino a quel momento fu trascurato. E cioè che le case, proprio come i corpi/menti che lo abitano, hanno un proprio rimosso (ciò da nascondere) o delle proprietà “magiche” legate alla superstizione (la paura del buio, o anche degli oggetti che potrebbero animarsi, Freud parlava di onnipotenza dei pensiero ed ha profonde radici nella magia, nella credenza e nella superstizione, tema antropologico).

Proprio quelle qualità che il teorico dell’architettura Antony Vidler nel suo Architectural Uncanny (L’inquietante architettonico, uncanny=unheimlich) vedeva ansiosamente cancellate, ma mai del tutto, sia dalle avanguardie storiche (pensiamo a Le Corbusier e alle sue ricerche sulla Casa=macchina per abitare, o al razionalismo) che già precedentemente agli inizi della Rivoluzione Industriale (di cancellazione ad es. della vita di strada, provocando e gettando le basi per quell’angoscia territoriale di cui parla l’antropologo Franco La Cecla, derivato da scollamento tra abitanti e luogo, presentato come tabula rasa, inabitabile).

Qualcosa però rimane sempre, pronto ad affiorare puntualmente proprio come sentimento perturbante, che ci appare di fronte ad una o anche dentro la nostra stessa abitazione, il presentarsi di architetture, spazi urbani e case definibili “strani”, inquietanti o addirittura repellenti da un immaginario condiviso, la doppiezza ed ambiguità sostanziale della realtà quotidiana, capace di celare cose nascoste, aliene, minacciose pur apparendo familiare, confortevole, amica, e le cui origini si possono far risalire alle catastrofi cicliche (umane o naturali) che hanno forgiato la superficie del mondo abitato e no, lasciando da qualche parte della mente antiche reminiscenze, anche sotto forma di vaghe e dolorose nostalgie.

 

3. Questo complesso di nuove tematiche hanno trovato un luogo fertile di sviluppo nella rappresentazione artistica (dal tardo romanticismo in poi, all’espressionismo e alle avanguardie) e nell’architettura, come abbiamo visto appunto CASA anche come CAUSA dell’unheimlich, luogo privilegiato proprio del perturbante. Ma esiste un luogo dove tali rappresentazioni sono state assunte e sviluppate, anzi quasi inglobate nella propria essenza di “arte delle arti” e questo luogo è il Cinema.

 

L’interesse verso questa forma d’arte va quindi al di là del proprio essere “arte”. Infatti perché dovrebbero interessare all’architetto le scenografie cinematografiche? Perché dovrebbero interessare le apparenze e le modalità di ripresa di città come quelli del Caligari degli anni ’20, o più puntualmente di edifici come il Bates Motel di Psycho, l’Overlook Hotel di Shining, L’Ospedale del Regno di Danimarca nell’omonimo serial tv danese, o anche la RED Room del serial Twin Peaks, oltre agli innumerevoli castelli e case dell’orrore che soprattutto dagli anni ’30 della Universal sono giunti sugli schermi, e dagli schermi all’immaginario del pubblico?

La domanda contiene in sé già le soluzioni e le conclusioni di questa tesi, e sono legati al triplice concetto di PROIEZIONE

Ovvero:

1) Proiezione come modalità fisica (la luce e lo schermo) del cinema, attraverso cui può avvenire l’esperienza fruitiva. 

2) Proiezione come meccanismo psicologico, ovvero dati i mezzi con cui si esprime l’arte cinematografica e il suo apparato che non solo “mima” la percezione umana, ma è capace di provocare una risposta emotiva che quindi coinvolge l’immaginario personale del fruitore, l’immaginario condivisibile, e quindi sempre più collettivo, attraverso il suo essere spettacolo conosciuto da molti, anche per meccanismi indiretti (tutto ciò che vi gira attorno, come ciò che si identifica come “mondo del cinema”, pubblicazioni ecc. un po’ come avviene anche per l’architettura e il mondo del progetto e delle riviste).

3) Proiezione quindi principalmente come Pro-jectum, Progetto. Sempre in virtù di tali mezzi, la rappresentazione cinematografica dell’architettura si configura anche come rappresentazione progettuale, in grado cioè di prefigurare (Pro-Gettare, gettare, presentare avanti, “rendendo presente l’oggetto in virtù della sua assenza” Sartre) un oggetto ripreso come se fosse reale, appartenente (anche potenzialmente) al nostro mondo quotidiano. Cioè completandolo, andando al di là della sua essenza di set che sappiamo incompleta per costruzione, quando non interamente virtuale come per il progetto in AutoCad, o la Playstation, il cinema-Luna Park ecc., includendovi però anche le sue rese emozionali.

 

Quindi il cinema delle molte case perturbanti, l’horror d’autore, quello capace d’includere il genere psicologico, il kammerspiel ecc. (escludendo certe tematiche come lo splatter o la serie Z),  ha assunto in sé come profilmico (cioè a monte della ripresa, come una delle variabili della scenografia) proprio questo perturbante spaziale/architettonico già scaturito nell’ambito domestico ed indagato da Freud e dal teorico Vidler ed esplicitato nelle figure della Metropoli, dell’industrializzazione, dell’aggregazione e del gigantismo monumentale, degli oggetti con cui il collegamento empatico si stabilisce in versione “disturbante”, di paura spaziale (agorafobia, claustrofobia, vertigine). Un importante aspetto socio-antropologico è l’identificazione della casa perturbante con le caratteristiche apparenti della “casa infestata dagli spettri”, la Haunted House di derivazione anglosassone (e i castelli, il loro risvolto monumentale e d’impatto sociologico, come sono andate via via rivelandosi le ricerche “pseudoscientifiche” dei circoli medianici tardo ottocenteschi, l’astronomo francese Camille Flammarion in testa).

Questa resa emozionale in senso perturbante emerge soprattutto all’interno della rappresentazione cinematografica dello spazio in due modi:

a) quando compaiono “forme di abitazione”, facciate, case, ville, spazi interni e arredamenti, tramite la grammatica della presentazione-esplorazione del luogo: l’ingresso/fondazione del luogo, l’accompagnamento tramite ad esempio un rappresentante di un’agenzia, oppure di vera e propria esplorazione visiva propriamente detta, atta a scoprire gli oggetti d’arredo e le conformazioni spaziali tramite inquadrature statiche;

b) quando compare l’uso insistito della soggettiva in movimento che amplifica e focalizza meglio la coincidenza dei piani audiotactovisivi della percezione spaziale fuori e dentro lo schermo, per cui rimane più facile l’identificazione mediante assunzione del punto di vista della macchina da presa che si presenta così come esplorativa.

In tal senso il vocabolario rappresentativo che mette in campo la scenografia horror nel cinema risulta essere più ampio di quello che poteva essere costituito dalle modalità rappresentative della prospettiva classica e della geometria descrittiva, accettando infatti come variabili progettuali anche ciò che si prova dinanzi allo schermo, le emozioni “alterate” della e sulla casa e sui suoi spazi, emozionalità poeticamente trasferita e proveniente alle sue apparenze scenografiche nel film. È per questo che siamo entrati di prepotenza nella definizione ambigua che ci può essere tra rappresentazione cinematografica (res-praesentatio, rendere presente agli occhi una cosa, pre-sentirla quindi anticiparla con l’immaginazione e riconoscerla come verosimile grazie al movimento e ai mezzi realistico/fotografici) e il piano della non-rappresentazione, il reale. Cinema-realtà è uno dei poli in cui si gioca tutta la valenza conoscitiva, scientifica, immaginaria di ciò che esperiamo durante e attraverso la proiezione cinematografica. Proprio come avviene per i medium rappresentativo/espressivi con cui l’architetto progetta, conosce, immagina, presenta.

 

Nell’arco dello sviluppo del presente lavoro sulla rappresentazione cinem. dell’architettura/casa perturbante nel cinema horror, abbiamo riscontrato una vasta casistica di tali visioni d’artista, destinate ad impiantarsi in un immaginario comune, sempre più amplificato. Tra queste svettano come prototipi scenografici del perturbante, ovvero particolari architetture (riprese in maniera tale da restituirci una certa dose di “totalità” oggettuale, di continuità e interezza plastico/spaziale) in grado di rappresentare, testimoniare ed essere di riferimento per un perturbante spaziale anche per altri cineasti (e per gli architetti tout court), certe vedute del Caligari di Wiene (1919) e soprattutto della Casa di One Week di Buster Keaton (1920), del Bates Motel (in Psycho, 1960 e nei vari seguiti degli anni ‘70/’80), della Hill House di R.Wise (The Haunting, 1963), della serie di film dedicata alla Amityville House (Amityville Horror, 1979) e dell’Overlook Hotel (in Shining dell’80), del Riget Hospital (nel serial-tv The Kingdom, degli ultimi anni ’90) o del fantascientifico Cube (1997) e della Red Room inventata da David Lynch nel serial e nel film Twin-Peaks (1990).

 

La paura, il perturbante spaziale, esploso tramite una cinerappresentazione consapevole, ha portato con sé situazioni usabili espressivamente anche nel progetto consapevole dell’architettura. Consapevole cioè dei suoi possibili effetti (perturbanti) su un pubblico, destinato a fruirla, anche solo per l’ineluttabile “impatto” sociale (la città e i suoi aspetti quotidiani, anche coercitivi, ad esempio).

I più evidenti di questi li abbiamo identificati in quelle risposte emotive derivate direttamente da situazioni spaziali in cui si ritrovano i personaggi in un film, includendo tra questi anche l’occhio della macchina da presa in grado di restituire proiettata su di noi proprio tali sensazioni. Abbiamo riscontrato principalmente:

 

a) gli esterni o aspetto esteriore (facies dell’edificio) come immagine topica preliminare di tutta l’atmosfera della pellicola, soggetta per sua propria evidenza al pre-giudizio testuale (cfr Popper). L’architettura-protagonista, fulcro dell’attenzione (del regista-scenografo, del fruitore, anche occasionale) viene a prefigurarsi come “spettrale” attraverso:

 

- le superfici e textures in evidente disfacimento, che per la folks psychology  indicherebbe disabitazione;

- grandezza e dimensioni relative (all’uomo e alle misure standard cui è assuefatto dalle sue comuni abitazioni, e quindi in rapporto al contesto architettonico abitativo dell’intorno o della collocazione epocale) oltre che per ubicazione costruttiva in genere dominante un’intera area geografica. Quest’ultima istanza possiamo indicarla come l’incombente topografico, tipico delle acropoli o dei castelli.

- la facciata/facies che permette di leggere ogni bucatura come orifizio corporeo, e quindi come faccia (maschera) umana, dotata comunque di un’espressione “sentimentale” (anche triste o addirittura ostile, come avviene in Amityville Horror).

C’è da ricordare che tali caratteristiche della casa perturbante vengono avvertite e desunte quasi immediatamente dalla sensibilità individuale (come ricordato, in maniera pre-testuale): entra cioè in gioco la capacità empatica di stabilire un tipo qualsiasi di collegamento antropomorfico.   

- l’esterno agorafobico precedentemente citato, come luogo quindi di nudità e di difesa (sotto forma di un’incombenza meteorica, di scarsità di luce, oppure anche sotto forma di ansia sociale, cioè paura degli altri, della folla massificante e ostile) che richiede la ricerca del rifugio

b) Gli interni della casa possono avvalersi sia di un evidente fuori-scala che dell’estrema suddivisione volumetrica (da cui il labirinto): in entrambi i casi vi cogliamo un senso di disadattamento (al corpo dei protagonisti e all’interdizione oppure alla dissoluzione nel vacuo della nostra visione). Questo disagio lo indichiamo come sentimento del confino o  claustrofobico.

La claustrofobia ambientale nella casa perturbante diviene occasione per manifestare:

- l’interno mentale. Ovvero una camera o spazio ristretto il cui arredo o accumulazione di oggetti (ricordi e simboli) riflette, attraverso ad es. stadi progressivi di disordine o di ossessiva catalogazione, lo stato psichico dell’abitante (la camera del killer o la Casa-Torre a Bollingen, autocostruita da C.G.Jung dagli anni ‘20).

l’interno corporeo. Spazio emanato da un corpo biologico che inquietamente ne assume anche alcune proprietà: dimensionali (a misura dell’abitante) e tattili (nel materiale, spesso isotropo come quello litico per la caverna o calcareo, per gli animali col guscio).

-  nel collegarsi irrazionale degli spazi ristretti, il labirinto, e l’ansia del perdercisi.

-  il bisogno di difesa (il bunker, la camera chiusa a chiave).

-  gli effetti della costrizione sul gruppo sociale costituito per occasione/situazione comune. Effetti spesso devastanti, dopo l’instaurarsi di normali dinamiche sociali, questo per l’estremizzazione di tali dinamiche dovuta alla condivisione coatta dello stesso spazio vitale.

L’interdizione visiva: pareti, mura opache e corridoi bui, oppure gabbie, sbarre, vetri, trappole trasparenti.

 

à L’esterno agorafobico e il sentimento del confino formano una coppia di tensione spaziale quasi imprescindibile della casa perturbante, e di tutto l’horror (con il gioco della suspense, ad es., o del campo-fuori campo). Tale dialettica esplicita la figura dinamica dell’assedio, contemporaneamente a livello di plot (motore dell’azione, causa-effetto) e di set, spazio organizzato delle riprese (interni aggrediti, esterni incombenti). La casa in questo caso diventa perturbante in quanto ambiguamente sospesa tra il dentro e il fuori, tra il consentire l’uscita e l’impedire l’entrata. Da qui l’estrema attenzione, in questo genere di film, a tutte le sue bucature (porte, finestre, scantinati, canne fumarie, intercapedini: strategie “militari” insegnano).

 

c) La preponderante presenza di oggetti-feticcio come arredamento. Per feticcio intendiamo un oggetto o parte del corpo oggettualizzata che perde le sue abituali caratteristiche d’uso assumendo quelle che il soggetto proietta su di esso sulla base di particolari esigenze affettive o di fantasmi psichici.

In loro presenza ricadiamo pienamente nelle teorie di Freud sulla credenza o superstizione primaria, come per il caso dell’onnipotenza del pensiero che ci fa dubitare anche delle più salde certezze anti-animistiche.

Tale possibilità animistica la vediamo incarnata, in maniera più o meno esplicita e ambigua, nei quattro temi fondamentali:

- la rivolta degli oggetti, dovuta il più delle volte ad errore mnemonico proprio di chi li manipola (lapsus o dimenticanze nel loro collocamento spaziale) o provocate da volontà estranee (celarli volutamente).

- l’attribuzione “forzata” di qualità animistiche e minacciose dovuta a fattezza biomorfa dell’oggetto (zoo/antropomorfa, statue ad es.), oppure per derivabilità corporea (ossa, animali impagliati, trofei).

-  il capovolgimento del ruolo utente-utensile, per il quale il lavoro tramite l’oggetto diviene lavoro per l’oggetto. In questo caso si diventa schiavi della casa, alienando il proprio ruolo di abitante in quello tipico del custode.

- il domestico pericoloso. Dovuto a situazioni potenzialmente pericolose in quanto è sempre possibile  la non completa controllabilità sulle cose (che invece è sempre mentale, e si rivela quindi quello scarto anche dialettico tra immaginario e reale fisico, per il quale risulta perfino perturbante il caso della perfetta obbedienza delle cose al proprio pensiero, alla sua onnipotenza appunto). I crolli delle strutture, degli impianti mal mantenuti, dei ruderi sono rappresentazioni non raramente riscontrabili nell’horror, così come i vani ascensori, le scalinate e i vuoti tra le rampe, le grandi altezze senza protezioni, i cornicioni, gli impianti dell’acqua, elettrici ecc.

 

Tra questi oggetti-feticcio importanza particolare nella scenografia perturbante assumono gli specchi e le superfici riflettenti che introducono la già discussa idea del Doppio. Le maniere in cui tale idea si incarna tramite l’introduzione o enfatizzazione di tali oggetti, sono:

- il doppio di chi vi si vede riflesso. Manifestazione di una moltiplicazione (anche solo potenziale) dell’identità: crisi dell’Io.

- il riflesso della scenografia e dello spazio d’intorno. In relazione all’occhio del percipiente (e della macchina da presa) permette l’illusione e lo “sfondamento” prospettico dello spazio. Per il senso comune, tale riflesso è sempre conforme al reale, quindi una sua eventuale irriconoscibilità implica l’applicazione del concetto di “porta” magica (l’Alice di Carroll), di uno spazio al-di-là. Spazio anche di provenienza malvagia.

 

d) L’inconscio domestico. Ovvero l’identificazione nella casa perturbante di luoghi catalizzanti l’esperienza perturbante:

- la Wunderkammern, o spazio concentrazionario di oggetti, dalla spiccata proprietà diacronica e feticistica, in cui tali oggetti assumono particolarità (“personalità”) e rilevanza epifanica. Tale rilevanza appartiene anche alla figura dell’accumulazione degli stessi in quell’unico spazio. Tali caratteristiche ben si evidenziano negli antichi studi, nelle soffitte, nelle collezioni private della casa. In questo caso una Wunderkammern può apparire diffusa in un tempo e nello spazio casalingo, dove appaiono quasi improvvisi gli oggetti o i personaggi, come da “altri spazi” (avviene ad.es. nel cinema di D.Lynch, la famosa Red Room la cui atmosfera la vediamo traslata in molti altri film del regista, come trasfigurata).

 - I sotterranei della casa (cantine, ripostigli segreti, taverne o, nel caso di un’estrema identificazione corporea, la latrina, lo scarico malsano, il rifiuto, le fogne) sempre identificabili come luoghi di provenienza misteriosa, legate infatti al buio e al mito della caverna. Attorno a questi spazi ruoterebbe non di rado l’intero perturbante dell’edificio, e sono numerosissimi i casi in cui proprio nel sotterraneo, oltre il pavimento o una parete posticcia, vi si celerebbe un foro, un pozzo che pesca direttamente in un ulteriore spazio. Lo spazio del rimosso della casa. Lo spazio delle fondamenta e quindi delle radici dell’edificio, delle sue possibili memorie (che possono affondare ad es. in un sito archeologico o cimiteriale, mascherando o lasciando affiorare in qualche modo antiche colpe o incurie, non solo procedurali/burocratiche in ordine alla fabbrica della casa in oggetto).

 

 

4. Appare chiaro da questi punti che il cinema è stato in grado, in una susseguente amplificazione, di raccogliere, esporre, in alcuni casi anticipare quelle che si possono considerare ansie e paure sociali scatenati dal disagio del vivere (vuoi per sradicamento, aggregazione, nostalgia) in nuove “situazioni spaziali”, dove l’architettura non si avverte come emanata ma principalmente si configura come direttrice di azioni. Infatti essa è in grado di precludere o permettere relazioni visive o sociali in forza della sua opacità, topografia, qualità di conformazione spaziale, agendo cioè da scenografia dinamica della socialità. In ciò è stata ben rappresentata ad esempio dal già citato espressionismo tedesco, ma anche dalle visioni urbane più spettacolari di certa fantascienza e dal filone del “cinema del confino” come il kammerspiel, il carcerario, il cinema di guerra sottomarino o di trincea, e così via. Il modo di procedere è quello dell’uso a fini espressivi di tutte le componenti variabili del mezzo filmico stesso: luce e illuminazione, movimenti di macchina e montaggio, deformazioni ottiche determinate e consentite dalle qualità spaziali del set. Questi mezzi, spesso ricavati dall’inventiva un po’casuale e “artigianale” dei pionieri degli anni ’20, assurgono alla dignità di vere e proprie figure retoriche che permettono una rappresentazione emozionale anche di realtà altrimenti silenti o atone, come una parete, una scala o un piccolo edificio trascurabile in un contesto cittadino più “dignitoso”. La figura principale in tal senso è quindi il “come se” (poetico) e “l’inerzia documentale” (dovuta per Morin dall’essenza fotografica del cinema) che si concretizza per un istante non solo durante la fruizione cinematografica ma anche direttamente nel nostro immaginario tramite la proiezione filmica (la cinerappresentazione emozionale tramite il cui inganno quel reale, rappresentato in maniera fotografica, diventa credibile, ipotetico, possibile). Immaginario che non è solo nostro ma, ricordo, in quanto cinema, immaginario facilmente collettivizzabile.

 

Tutte queste variabili rivelano il loro profondo legame con i temi e gli assunti che abbiamo ricondotto al mondo quotidiano (soprattutto in opposizione e scostamento da esso): proprio in tale legame vediamo risiedere le basi della estrema condivisibilità sociale di tali sensazioni.

Il mondo quotidiano, frutto per i più anche della sola esperienzialità domestica, comune e di tutti i giorni, è un insieme di abitudini acquisite che vediamo “espandersi” giorno dopo giorno, essendoci chiaro ad es. che il mondo quotidiano di una madre calabrese di soli cinquanta anni fa è incommensurabilmente diverso anche da quella di una moderna casalinga, nello stesso ambito geografico. Pur potendo essere diversi, all’interno di essi ci appaiono come “categoriali” (avendo assunto cioè tale termine in maniera non rigida, ma aperta, dinamica, in progress) alcuni temi che, essendo riconoscibili da tutti pongono le basi di un’estrema condivisibilità degli assunti, su cui poi risulta possibile “giocare”, manipolandoli come dati sceno-cinematografici.

Tutto ciò va a costituire il Lebenswelt quotidiano (Maffesoli) come il proprio spazio, la propria casa, il proprio quadro audiovisivo di riferimento che ci fornisce di continuo categorie (per apprendimento ed evoluzione/maturazione dell’esperienza, si pensi al cammino infantile della comprensione dello spazio – interno/esterno – e del funzionamento delle cose). La presa di coscienza che, in taluni casi, è possibile che appaiano nel Lebenswelt proprietà ed aspetti oggettuali che tradiscono i nostri precedenti sistemi di assunti, ebbene questa presa di coscienza è perturbante (Freud).

Tale emozione, in ambito sceno-cinematografico, è ottenibile quando quelle categorie (considerate cioè imprescindibili da un gruppo o più ampiamente da una intera società in cui sono in qualche modo circolate e condivise) si rivelano variabili, in forza dell’inganno cine-emotivo perciò trasferibile inaspettatamente  anche al di qua dello schermo. Trasferimento di un immaginario condiviso quindi, e di un immaginario perturbante condivisibile,  anche nell’ambito del progetto architettonico, tramite quegli elementi un tempo assolutamente categoriali (alto-basso, verticale-orizzontale, antropomorfismo, narrazione e tempo lineare della fruibilità spaziale, aspetto visivo delle superfici corrispondente alle effettive qualità tattili, buio-luce, sotterraneo-elevato, trasparenza-opacità, esplorabilità e sicurezza, e così via), elementi ora manipolati più consapevolmente come variabili inducenti emozioni e poeticamente assegnanti una spiccata personalità all’edificio costruito.

Riassumendo quest’ultimo punto, l’ingresso dell’immaginario perturbante cinematografico nella progettazione tout court ci sembra sia avvenuto principalmente in virtù di due forze:

a) Il medium cinema, come già accennato, soprattutto per le sue modalità estremamente diffusive di circolazione, tanto che può essere ed è stato usato, lo ricordiamo, per scopi totalitari, di convincimento delle masse e propaganda: i cinegiornali Luce dell’epoca fascista o durante il nazismo in Germania, la propaganda bellica americana negli stessi periodi o quella legata all’elezione del presidente o al mascheramento del fallimento in Viet-Nam…

b) Il contenuto rappresentato nello stesso, il quale gioca, appropriandosene e restituendoli, con tutti quegli elementi del sistema socioculturale impartito, le idee, i bisogni e gli assunti esperienziali. Oltre che con quelli legati alla corporalità sensibile (anch’essi in una certa misura “acquisiti”, v. i sistemi simbolici della Douglas) dovuti all’abitazione di questo pianeta (con tutte le sue qualità), e quindi alle nostre proprietà fisico-biologiche: alto-basso, simmetrie, giorno-notte, equilibrio e posizioni del corpo nello spazio. Tali contenuti si sono rivelati spesso come essenzialmente psicologici (la visione psicologica delle cose: del tempo, della luce ecc.), indicatori non di un reale ma di una realtà che, avendo numerosi punti di contatto comuni a tutti, diviene comunicabile, e quindi condivisibile.

 

Questo vero e proprio vocabolario a monte della ripresa e quelle nuove emozioni legate alla trasformazione della città e della casa possono essere investite di qualità progettuali. Ovvero di rappresentazione “emozionale” della ripresa scenografica. Questo implica il possibile uso di variabili spaziali e scenografiche atte a raggiungere una certa atmosfera nel film. Diventa cioè campo di prova anche progettuale, i cui risultati possono esser letti cioè come possibilità di intervento ideativo anche nel mondo quotidiano. Sforzi in tal senso sembrano apparirci tutto ciò che nel campo dell’architettura e della rappresentazione dello spazio sembra andare verso una realtà virtuale: Autocad, Playstation, cinema per i parchi giochi Disney, programmi di simulazione di volo ad esempio. Tutto ciò può essere interpretato non come tensione verso una “smaterializzazione del reale” ma una anticipazione, ipotesi progettuale, su un possibile reale, e a tale istanza non si sottrae il cinema della rappresentazione perturbante di un luogo.

 

In questo caso apparirà sempre più chiaro come tutte le considerazioni di resa emozionale fatte sulle caratteristiche apparenti  del set si possono pensare trasportabili anche nei confronti delle case e dell’architettura nel nostro mondo quotidiano. Se al cinema uno spazio troppo piccolo (o inquadrato costantemente nella sua totalità, magari con un grandangolo) ci consente di percepire un disagio claustrofobico, è perché lo stesso spazio nel mondo quotidiano ci restituirebbe la stessa sensazione. Con in più la consapevolezza di averlo provato al cinema. Quanto ha influito il Bates Motel nella nostra determinazione di come dovrebbe essere ed apparire una casa o villa incombente, perturbante, posseduta, sinistra? E l’omicidio nella doccia?

Il cinema innesca almeno due conseguenze sulla collettività:

 

a) Sull’immaginario collettivo, attraverso i suoi miti condivisibili, la sua potenzialità emozionale e visionaria;                                                                                                                                                       

b) Sull’essenza del nostro mondo (e ciò che vi costruiamo, le case, le piazze, le città) come set sociale, capace anche di rivoltarsi contro i creatori.  Ovvero: l’analisi di un’architettura horror al cinema ci costringe a prendere in considerazione le categorie che abbiamo anche del nostro mondo quotidiano e privarle della loro essenza categoriale (quelle di Arnheim ad.es. l’alto/basso, verticale/orizz., la gravità, il diedro cartesiano, le condizioni di equilibrio visivo, o quelle sociologiche di Agnes Heller: il verso del tempo e la sua esperienza interiore, il limite spaziale, la casa,  l’alternarsi della luce, le relazioni con il proprio corpo ecc.). Ovvero che tutto ciò di cui potevamo essere sicuri e su cui basare l’esperienza quotidiana (cioè la COSTANZA Percettiva), può essere sovvertito e pensato non come insieme di costanti, ma di variabili. E questo è destabilizzante. Se una casa deve essere accogliente, ecco che essa può rivelarsi pericolosa (gli incidenti domestici), o trappola claustrofobica. Così un bunker o una Panic Room, intenzionalmente rifugio. Una piazza vuota ci può far sentire nudi, indifesi (magari all’improvviso attacco di gabbiani). Un castello o un tempio può incombere dall’alto con il suo aspetto, magari antropomorfico (come accade per certe facciate/maschere di ville “demoniache”  perché empaticamente connotate da espressioni ostili).

 

L’architettura cioè viene a rivelarsi all’improvviso come contenitore/teatro di qualsiasi aspetto della nostra vita sociale, teatro anche ingabbiante, da cui non è possibile uscire o che determina o interdisce direzioni, visuali, in grado di attribuire ruoli sociali (cioè il gioco delle “parti sociali” di cui parla Goffmann) in forza della sua opacità, trasparenza, massa. Consideriamo la situazione architettonica di un topo inconsapevole in un labirinto di laboratorio. Questa presa di coscienza del mondo come doppio di un set (Baudrillard), epifania joyciana, è per l’appunto unheimlich.

 

 

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