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Sguardi, pedinamenti,
peep-show inconsapevoli: considerazioni a latere sullo sguardo e lo spazio dell’intrusione hitchcockiano. "L'occhio
scuro dell’assassino ingombra tutto lo schermo. All’interno distinguiamo
una figura chiara, una donna leggermente claudicante, che si muove. Non
per molto. Giunge al suo posto, nel luogo dell’appuntamento. Poi la sua
faccia si comprime in un’espressione di
terrore. - Chi è lei? Cosa fa? – un urlo,
l’iride scura dello scrutatore si rilassa… Poi, più nulla. Il silenzio
ingombra la stanza dello squallido motel. Niente luci. Alcun movimento sul
pavimento buio presto occupato dalla sagoma delineata malamente da un
tecnico della scientifica. Qualche fotografia scattata senza troppa
enfasi. Un rilievo veloce poi tutto sarà archiviato. Le luci si spengono
per l’ultima volta. Dall’altra parte del cortile qualcuno osserva soddisfatto da un appartamento buio. La finestra socchiusa gli consente di spiare gli eventi. Poi cambia obiettivo. A pochi metri di distanza un’altra finestra si accende. Entra una donna bruna, piacevole a vedersi. Inizia a spogliarsi. Via la pelliccia, la maglia, la gonna leggera. Una musica proviene dal piano di sopra. Un giovane compositore alle prese con il suo pianoforte scordato. Qualcuno aggiusta una fotografia su un caminetto… La
prossima volta toccherà a lei.”" Index: Introduzione. Alcuni Temi e princìpi fondamentali: il set e il
visibile. (i)Rappresentazione del
dubbio. (ii) Occasioni “unheimlich”: l’occhio
negato. (iii) Scopofobia vs. scopofilia. (iv) L’invasione del
privato. (v)
Intrusioni (vi) Il visionario
visto. (vii) Come sottrarsi
all’occhio. (viii) L’essere
Trasparenti. (ix) Paura della
Luce. (x) La
profondità dell’occhio. Appendice: L’occhio
scrutato/scrutatore. 16 Film dedicati al
tema. 21 Scene
cult. ------------------------------------------------ Introduzione. Alcuni Temi e princìpi fondamentali: il set e il
visibile. Vedere… l’aldilà,
vederci al buio, rimanere accecati dalla Luce intensa, non riuscire a
mettere a fuoco o ignorare apposta l’inevitabile fuori fuoco, sentirci
osservati, difenderci dall’intrusione e dallo “sguardo indiscreto” o al
contrario voler essere trasparenti per dimostrare la nostra assoluta
integrità morale... Sono tutte condizioni
ed esperienze che si fanno comunemente. Le medesime esperienze
riconoscibili sullo schermo, come riconoscibili sono le appendici, gli
apparati tecnologici, gli strumenti che ci permettono di operarle, a
qualsiasi livello di complessità e oggi sempre più diffusi: macchine
digitali, cineprese, teleobiettivi, telescopi, telefonini con fotocamere ecc. Esse presuppongono tre
elementi fondamentali Occhio
(+ Protesi) ßà
Ambiente(topografia
architettonica) ßà
Oggetto e il gioco della loro
più o meno complessa interazione ci fornisce l’evidenza della situazione
architettonico/esperienziale in cui ci ritroviamo immersi, sia un
peep-show privato, lo scrutamento della superficie lunare, un set
cinematografico, un cortile con finestre, un camerino lasciato aperto o
dal vetro segretamente trasparente. Da tali situazioni abbiamo (in parte
anche in toto se vogliamo, dipende dal – scusate
- punto di vista…) i set del cinema di Hitchcock, Powell, De Palma,
Borowczyk, Fisher,
Lynch, Kubrick, Antonioni e tutti gli altri grandi
visionari. Questi tre soggetti
possiedono una loro importanza per quello che viene definito la questione dei “frames”: dalla sociologia possiamo infatti mutuare
tale caratteristica del contesto sociale che coinvolge ad un tempo
l’esistenza dell’altro da sé, l’architettura dove agisce la collettività
e, per proiezione, la propria condizione di “ingabbiamento”. Ovvero il
dove si agisce
quotidianamente e il dove vediamo “inquadrati” gli altri: la casa, il
negozio, la città, ma anche la riquadratura di una finestra, il palazzo di
fronte, il fondo di un corridoio o una stanza d’ospedale, un angolo di un
incrocio, un tombino aperto, la balconata di un teatro ecc. Situazioni architettoniche dove ci ritroviamo (accorgendocene poi, per proiezione)
anche noi assieme a tutti gli altri. Condizionamenti topografici che
l’architettura opera sulla socialità in maniera attiva, consentendo o
negando sguardi (per la propria opacità o trasparenza: pensiamo a una finestra o una vetrina con tendaggi o no), pemettendoci l’affaccio su fughe e prospettive urbane,
piazze ecc. L’architettura cioè agisce da Set Dinamico che ad un tempo
condiziona il contenuto (noi) ed è capace di rappresentarci (pensiamo ai
grandi Palazzi delle Istituzioni Statali o delle Multinazionali). Ma la triade Occhio/Topografia/Oggetto può
essere intesa in maniera non solo puramente materialistica. Nei film la
tendenza è anzi quella di rivelare come proprio partendo da questa evidenza materialistica (quasi “scientifica”) la
triade esperienziale tenda a rivelare l’altra scena ( “eine andere Schauplatz” di cui parlava Freud): il regno dell’ambiguo, dell’immaginario
profondo e malato che innegabilmente l’esperienza dello scrutare, del
cercare con lo sguardo anche l’illecito per il solo scopo di guardare
reca con sé. E questa malattia (il guardare
oltre, dentro l’illecito ecc.) presuppone appunto uno spazio dell’illecito (un appartamento privato,
un buco della serratura) altrui
e un mezzo (compresa l’immaginazione) come una protesi potenziante (la macchina
ottica). -------------------------------------------------- (i)Rappresentazione del
dubbio. “ Gli occhiali e lo specchio divengono
l’immagine di uno sguardo che non è più un semplice mezzo perché l’occhio
si congiunga con un punto dello
spazio, che non è più puramente funzionale, trasparente,
transitivo. In un certo modo questi oggetti sono sguardo materializzato od
opaco, una quintessenza dello sguardo (Todorov,
La letteratura fantastica, Garzanti Milano,
1990).” Possiamo affermare che
moltissime delle opere più “perturbanti” del cinema sono il risultato di
una sorta di voluta ambiguità
di fondo che lascerebbe dubbioso lo spettatore
sull’essere o non essere “soprannaturale” delle cose che vede
rappresentate, illuse sullo
schermo, lasciandoci a volte
delusi quando ad essere chiamate in causa in maniera “troppo” evidente,
senza più quell’aura misteriosa derivata dal dubbio (è vero o no? Si
tratta di un fantasma o no? ecc.) sono certe
“entità ultraterrene”. Questo varrebbe almeno per quei plot appartenenti
al piano della
“realtà-fiction”, mentre continuerebbero a mantenere le loro proprietà
perturbanti quelli che sconfinano nel regno dello “psichico” come le
allucinazioni, gli incubi, o certi ricordi spaventosi.
Ma il “piano d’ipotesi”
(l’ambiguità tra il reale e il fantasioso) rappresenta
infatti l’altro mezzo a disposizione del regista con cui vincere la
nostra ostinata opposizione accrescendo, contemporaneamente, le
probabilità di successo (cioè il perturbarci “felicemente”: è pur per
questo che siamo entrati nella sala oscura del cinema…) e tenendoci ad
esempio lungamente all’oscuro sulla vera natura dei presupposti sui quali
si fonda il mondo che descrive. Oppure può astutamente e ingegnosamente
evitare qualsiasi precisazione o spiegazione, fino all’ultimo (vedi ad
esempio The Sixth Sense-Il Sesto Senso
di M.N.Shyamalan, 1999, o The Others di A.Amènabar, 2001, per limitarci ai nostri ultimi anni,
senza considerare quelle storie che si fondano su eclatanti coup de teatre, in realtà, solo banali trucchi di
sceneggiatura per consentire allo spettatore di oltrepassare il muro
dell’ora e mezza di proiezione… Si confermerebbe così
un certo discorso sul presunto primato della fantasia, nello
specifico il primato della fantasia/fantasticheria sulle occasioni offertaci dalla realtà o
anche da certe sue
rappresentazioni (per sostituzione analogica, vedi certi quadri o
fotografie surrealiste) in cui tale facoltà umana prende il sopravvento. E ciò
accade più spesso dove il gioco tra il visibile/invisibile rimane più
ambiguo, quando cioè è l’occhio della fantasia ad
accendersi, quando la stanza oscura fino a ora interdetta rimane
misteriosamente socchiusa o improvvisamente manifesta l’intenzione di
rivelare il suo contenuto… -------------------------------------------------- (ii) Occasioni “unheimlich”: l’occhio
negato. Alcune di queste “occasioni”
sono ravvisabili a proposito del “[…] silenzio, della solitudine e
dell’oscurità, [per i quali] possiamo dire solamente che si tratta di fattori
che contribuiscono all’insorgere dell’angoscia infantile, della quale la
maggior parte degli uomini non riesce a sbarazzarsi del tutto (Freud, “Il
Perturbante”, in Totem e tabù e altri saggi di
antropologia, Newton Compton, Roma,
1979)” ed è possibile raggruppare tali occasioni in “temi” ricorrenti ed
aree problematiche. Da tale analisi e dalle
memorie di qualsiasi cinefilo, appare subito chiaro che in primo piano
emergono tutti quei temi connessi all’invisibilità
, al “vedere/non vedere” e alla metamorfosi, in una sorta di
“doppio” rovesciato dell’esperienza
cinematografica. Molte di queste opere introducono
infatti oggetti legati allo sguardo – specchi, lenti, occhi e occhiali, binocoli,
fessure voyeuristiche, ritratti e riflessi
(cfr. già il prof. Aldo
Carotenuto, a proposito di Hoffmann i cui
racconti farebbero continui riferimenti al mondo delle immagini e ai
problemi relativi allo “sguardo”; ma al riguardo vi è tutta una
discendenza di registi la cui questione fondamentale è per l’appunto il
vedere e l’esser visti, il riprendere e l’esser ripreso da Hitchcock a Michael Powell a, ovviamente, De Palma) -------------------------------------------------- (iii) Scopofobia vs. scopofilia. Perché oltre alla paura di essere guardati emerge
anche il desiderio di essere
guardati? Freud risponderebbe che
non esiste la questione: quella paura cela già in sé un desiderio e
l’inquietante ne emergerebbe dalla rivelazione.
L’antropologo Franco La Cecla individua questo
desiderio (giocando ora a carte scoperte) nella voglia e bisogno di
oggettività: “ Per un bisogno estremo di riconoscimento. Come se la vita
privata da sola non si bastasse e per essere vera avesse bisogno di esser guardata. Nelle società
tradizionali le biografie erano un’imitazione delle vite dei genitori, dei
santi, degli eroi, dei dannati. Adesso sono biografie di gente sola che
ha bisogno di autentificazioni e che, forse,
compra cose per assomigliare a qualcuno che vede nei manifesti.” (La Cecla F.,
Perdersi. L’uomo senza
ambiente, Laterza, Bari, 2000, p.67 e sgg: L’invasione del
privato). L’occhio della telecamera non è
identificato con quello di un regista supremo che tutto vede e ascolta
(una sorta di dio) ma questa volta con quello che rappresenterebbe lo
specchio. Perché oggi lo specchio “non rimanda più nulla” (o meglio, il
nostro volto visto sempre più imperfetto, da correggere), ed è sostituito
dal come dovremmo essere della
pubblicità e degli altri, che ti osservano: “La grande paura di
fondo è, ancora una volta, quella di sparire senza lasciare traccia,
cosicché in questo momento della Storia dove chiese, partiti e utopie
appaiono drammaticamente mischiati, non restano che milioni di corpi soli
e neutri seduti davanti allo schermo a commuoversi della sceneggiatura
della propria vita. (Clelia Pallotta,
comunicazione al Seminario di Tecniche della Comunicazione Pubblicitaria,
Politecnico di Milano, 1999)” -------------------------------------------------- (iv) L’invasione del privato. Orribile a dirsi ma è
così: i linguaggi e le tecniche della pubblicità interagiscono con
l’esistenza delle persone. Ogni stato d’animo, passione sentimento
emozione, sentito o anche solo ipotizzabile sia ormai collegato a uno o più segmenti di mercato occupato da un numero
sterminato di merci, materiali e immateriali, per cui quelle emotività
recitano la parte di target.
Merci appositamente pensate e prodotte per stimolare, sorreggere e
alleviare attraverso il consumo. Pensiamo ad esempio a certi moderni spot
che presentano (magari rivisitati da qualche mirabolante effetto digitale)
sequenze “rubate” da celebri film e riproposti per vendere automobili o
dadi per il brodo. Oppure a certe tendenze di reality o talk show con personaggi
assolutamente tipizzati e storie un po’ troppo complicate per poter essere
quotidiane (come invece si dichiarano). Questo ci sembra
possibile facendo leva proprio sul potere rappresentativo delle
immagini le quali presuppongono, secondo la già citata prof.ssa Pallotta, uno spazio del privato “[…] talmente
ben costruito, talmente accattivante ed affascinante che in qualche modo
si sovrappone al privato reale
e permette di sopportarlo […] un privato sceneggiato; perché gran parte di
quelle storie sono inventate e la gente che ci va
è pagata. Ma nel rapporto emotivo
di chi consuma quei programmi, quei sentimenti esposti diventano reali
perché rispondono a quel bisogno di condivisione che una volta era rappresentato dalla comunità dei
vicini.” -------------------------------------------------- (v)
Intrusioni Il fatto di aver
spostato il confine del privato assumendovi all’interno
spazi e funzioni un tempo delegate all’esterno (consentendovi anche
l’intrusione, per esempio del
lavoro ora possibile anche tramite computer, o degli acquisti tramite TV o
Internet) ha modificato dunque il rapporto tra le persone con la
conseguente mutazione del sentire comune della gente. Diciamo che l’utilizzo sociale del
sentire è tendenzialmente mercificato. E quando un linguaggio diventa così
diffuso, così popolare, allora il senso che c’è dentro quelle parole
[quelle immagini] diventa tuo.
C’è una sorta di “espropriazione della naturalità delle esperienze”, una
finalità preordinata nell’uso dei sentimenti. I sentimenti avrebbero
subito una sorta di “classificazione”, applicabile anche al cinema,
pensiamo al cinema massificato di Hollywood ma anche a quello orientale,
Bollywood ecc., quello più marcatamente
“industriale”, il quale mirerebbe alla costruzione della realtà perfetta,
quella del Truman Show ad esempio. Come l’iperrealtà
citata da Baudrillard, il nostro quotidiano e
quindi quello cinerappresentato appare sempre
più come una forma di realtà organizzata-simulata-virtuale che ha però degli
effetti “veri”. Ha ad esempio l’effetto di modificare le relazioni
sociali. Si vorrebbe che i media tendano a sostituire sempre di più la
socialità fisica, il corpo a corpo. Tutto infatti verrebbe mediato, anche
la lite. Ciò è teso a dare l’impressione di armonia e di pacifica buonistica risoluzione di conflitti, in una parola: di
rimozione, tutto sommato. Il fatto che rimane alla base è che
il pubblico non si può scontentare, e chi ha capitalizzato quella finzione
di realtà deve avere un guadagno: il pubblico vuole essere spaventato? Gli
daremo l’orrore. Vuole la lite televisiva: ecco pronto il format ed uno stuolo di
volenterosi attori disoccupati pronti ad incarnare i Contenders (film, D.Minahan, 2001,). (torna all'indice) -------------------------------------------------- (vi) Il visionario
visto. Ma anche, spostando l’idea
dall’oggetto osservato a chi lo
osserva: colui che è capace di “vedere” o di
avere accesso a cose che la maggioranza della gente non percepisce e ignora,
appare il più delle volte condannato dal gruppo e dalle
circostanze. “ Se è vero che c’è
un ‘vedere ciò che altri non vede’, che si configura come un pre-vedere (e per il
quale, la storia ci insegna, il futuro solitamente certifica ciò che
l’uomo di genio ha anticipatamente percepito) è altrettanto vero che
essere unici testimoni di una ‘esperienza dei limiti’ significa essere esposti alla sofferenza e
all’incomprensione [pensiamo ai fenomeni di “Pre-Morte” o alle varie esperienze “ufologiche”, n.d.a.]. Il visionnaire
diviene per il collettivo un’incarnazione
maledetta, un portatore di follia, un malato”(Aldo Carotenuto, Il Fascino
discreto dell’Orrore,
Bompiani, Milano,
1999). Che cosa sarebbe in grado di vedere
il “visionario”, a cosa avrebbe accesso l’artista, il regista ecc., letteralmente esposto a pubblico ludibrio, che gli altri
non vedono? Dove non possono entrare? Nei mondi del
fantastico, quegli spazi “oltre” o “dietro” un visibile meramente
rappresentato, in “ […] Spazi che introducono aree buie da cui qualsiasi cosa può emergere.
(Jackson, Il fantastico, la letteratura della
trasgressione, 1981, cit. da Carotenuto, op.cit., p.49)”. E i suoi mezzi
tecnico-espressivi vanno a coincidere con quelli sempre più diffusi
e comuni con cui il moderno voyeur può permettersi di rubare immagini di
altrui (oggettivizzati) in luoghi sempre più set
(chiese, case, campagne, mare, montagna, hotel delle vacanze ecc.) e
comporre così un’ossessione che si chiama home movie, diapofilm, foto di matrimoni, snuff… -------------------------------------------------- (vii) Come sottrarsi
all’occhio. Anche il teorico
dell’architettura Anthony Vidler individua, nel suo saggio del 1992 “Architectural Uncanny”
[L’inquietante Architettonico], l’elemento capace di predisporre l’animo
alle minacce e alle paure
dell’ignoto nei luoghi del
quotidiano: la paura del buio, o meglio dello spazio buio, dove il
nostro principale senso viene annientato o anche
solo parzialmente occultato come nelle situazioni di penombra notturna,
all’aperto ad esempio, inquietanti per via delle mutazioni che
avvolgerebbero tutte le cose sotto la tenue luce della luna. Nel buio si perde
l’orientamento, la percezione dello
spazio. Gli altri sensi risultano amplificati e, in un certo modo,
allertati e quindi sensibilissimi alle minime
variazioni e segnali immediatamente interpretati come di pericolo. Al buio
totale ci sentiamo quasi totalmente indifesi, in balìa di qualcosa (ecco l’elemento inconscio accennato poco sopra): qualcosa o qualcuno
che a differenza di noi è avvertito come vedente e quindi capace ed
intenzionato ad offenderci. Una paura il più delle
volte irrazionale e che non sembra così facile da superare anche da
adulti, nonostante Freud la consideri principalmente una manifestazione di
angoscia infantile (Freud, Tre
saggi sulla sessualità, 1905 [1]
) legata alla mancanza
di una persona amata, “Hanno paura del buio perché nel buio non possono vedere la persona che
amano; e la loro paura si attenua se nel buio possono tenere la mano di
tale persona (Freud, op.cit.,
p.565)”. Ma non dovrebbe sfuggire il fatto che,
in questa stessa considerazione, la paura scaturisce sì dal non vedere (e
non solo qualcosa o qualcuno, ma dal non vedere nulla nonostante gli occhi
spalancati), ma anche che in quello stesso nulla appaiono comunque, come
ingigantite dentro di noi, figure il più delle volte senza forma legate al
senso della minaccia, dell’allarme,
del pericolo. Lo spazio buio si popola di “presenze” sconosciute
amplificate da piccole tracce che i nostri sensi, allarmati, colgono, come
un piccolissimo suono, una mosca o un fruscio sospetto, un tonfo che
assomiglia ad un passo, un sibilo scambiato per un sospiro, generando come
una piccola palla di neve la valanga del panico. Ma è possibile porsi
facilmente anche dalla parte dell’aggressore. Consideriamo ad esempio
alcune sequenze di Rear Window, di
Alfred Hirchcock. Il protagonista sta spiando le mosse
sospette del vicino, coinvolgendo nelle sue congetture la fidanzata e la
governante. Nella scena dell’anello e dell’intervento della polizia egli
viene scoperto dall’omicida perché la luce della sua stanza è accesa, e
può essere visto dall’esterno. Non appena la spegne egli si nasconde, si
occulta. Può guardare senza essere visto. Così nel finale, sentendosi
ormai in pericolo, spegne la luce per rendere più difficoltosa la vendetta
all’omicida, usando subito dopo flash luminosi per impedirgli la visione.
In questo caso i termini in gioco sono la fisiologia dell’occhio, il
desiderio di nascondersi e l’uso del buio o del surplus luminoso che vanno così a coincidere nel significato. Altra
situazione di vittima-carnefice dove entra in gioco l’altro tipo di suspence
(quella che abbiamo descritto come “paura d’esser aggrediti”) è nel finale
di Il silenzio degli innocenti, di
J.Demme, questa volta con due situazioni
percettive opposte (e l’identificazione in soggettiva alternata con la
vittima e l’aggressore) e l’uso di un apparecchio a raggi
infrarossi. -------------------------------------------------- (viii) L’essere
Trasparenti. Prendendo le mosse dalle
indagini di M.Foucault, nella prima metà del
secolo si spostò l’indagine sulle regole apertamente politiche dello Spazio Trasparente, come
espressione al massimo grado della possibilità ed attuazione di “controllo
totale” (Bentham) e del recupero di quell’attenzione all’Igienico, proprio di Le Corbusier e dei
modernisti in genere, così come per certe soluzioni scenografiche
hollywoodiane rappresentanti la grandezza e “pulizia morale” delle
Istituzioni Statali, come nel caso dell’ultimo Spielberg, Minority Report,
2001, ed i suoi interni vitrei e luminosi (il commissariato ne è un
esempio lampante), assolutamente all’opposto di quelli analoghi (nelle
funzioni) di Seven, D.Fincher, completamente ottenebrati, incupiti da
oscurità diffuse e conseguenti incertezze geografiche: dove finiscono i
corridoi del commissariato, della biblioteca o delle buie camere dei
delitti? A cavallo dei due
secoli precedenti si pensò che la trasparenza potesse estirpare il
“dominio oscuro e oscurantista del mito, del sospetto e della tirannia, ma
anche di tutte le istanze irrazionali (Vidler)” Da tali presupposti
sbocciarono quelle “griglie razionali” e quegli atteggiamenti sociali (e
quindi spaziali) di chiusura ermetica “pre-privacy”, che sarebbero dovute essere proprie
delle Istituzioni (ad es. gli ospedali, le prigioni ecc.) dotate di
aperture “[…] chirurgicamente
determinate per la circolazione della luce e dell’aria; il design
terapeutico degli insediamenti e delle abitazioni di massa, la loro capacità di
strumentalizzare le politiche di sorveglianza.
(Vidler, op.cit.)”
Insomma una
generalizzata “Trasparenza Universale”. Ma verso cosa si andò
incontro? “[verso] una società
ascetica, che cioè si priva di un rapporto
affettivo con le cose e sostiene che le operazioni principali della nostra
vita non hanno bisogno di un rapporto con dei luoghi determinati. […] Una
tale impostazione astratta della vita risponde bene alla defisicizzazione e delocalizzazione progressiva dell’ambiente ‘moderno’. Le reti di relazione tra persone non si
sviluppano più per piazze e strade, ma grazie a linee telefoniche, a messaggi postali, a immagini teletrasmesse, a terminali
informatici. La fisicità dei rapporti si è diradata in favore di
una efficienza nello scambio di simulacri della fisicità, quali la voce
per telefono, la scrittura, le immagini e altre tracce, come le merci, il
denaro. […] Eliminare la differenza dei luoghi è una vecchia soluzione.
[…] Il funzionalismo dell’edilizia moderna si basa sull’assunto che il
cittadino non deve perdere tempo con una relazione troppo complessa con il
suo ambiente. Basta che il suo ambiente funzioni, soprattutto da un punto
di vista igienico […] Questo […] implica l’anonimità delle periferie. (La
Cecla, op.cit.)”
Si può studiare quindi da un
punto di vista storico il mito del potere attraverso la trasparenza e
la griglia razionale complice evidente del progresso tecnologico e della
sua utopistica applicazione nell’architettura e nell’urbanistica, nonchè ovviamente nella scenografia cinematografica.
Oggi, l’abbattimento
dei muri, l’eliminazione dell’ostacolo opaco costituisce, ad es., la metà delle
ristrutturazioni interne degli appartamenti abitativi e non. Le stanze,
secondo ultime tendenze, diventano multiuso e le pareti non vogliono
racchiudere più la vita intima di una persona o di una famiglia. E oltre
ai muri nella post-modernità cadono, una dopo
l’altra, tutte le barriere dello spazio personale. Come in una sorta di
“pubblicità del privato” (La Cecla) iniziata con
l’installazione del primo apparecchio telefonico in una casa individuale,
all’inizio del ‘900; solo che allora esso era
appeso nell’ingresso vicino alla porta (come testimoniano numerosissimi
film europei degli anni ’40). Segno evidente che lo
spazio casalingo era un’altra cosa: la soglia aveva ancora il significato
“filtrante” tra pubblico e privato, mentre l’ansia del controllo mediante
trasparenza oggi può esser
confusa con l’aggressione dall’esterno. “La porta non
basta a proteggerci. La tecnologia e i media
hanno modificato la condizione del privato. Tutte le cose del mondo
entrano in casa e tutte quelle di casa escono nel mondo”, pensiamo al
telefono, oggi posizionato in ogni stanza e anzi,
al cellulare che ci segue per ogni dove, e poi la radio, , il fax e il
computer traboccanti di così tante informazioni da vanificarle, la web-cam e la televisione: ribalta del privato oggi
all’ennesima potenza, dove il cittadino, preso dalla perversa ansia di
comunicazione, pare “senta il bisogno” di andare ad esibirsi nell’arena
per raccontare di sé – almeno per 15 minuti - sul piccolo schermo che
arriva anche a fingerlo, il privato, inventandolo di sana pianta in alcune trasmissioni, mimando una verosimiglianza, questa sì
“cinematografica”, d’infinita perfezione grazie all’abilità degli autori e
sceneggiatori. Tutto ciò partirebbe da
una “voglia insperata di autenticità” (La Cecla), anche se in vetrina essa pare rispondere
all’istanza “mitologica” cui in realtà apparterrebbe: “Anche l’autenticità
è un mito. Come sapevano bene i surrealisti, qualunque cosa può essere autentica, anche un falso. (id.)” Ormai la tv vomita
sentimenti e meschinità personali più vere del vero. Giovani, vecchi, donne e bambini entrano nella scatola
a spiattellare i banalissimi fatti loro, per non parlare dell’orrore
servito caldo dalle seguitissime Real tv e telegiornali-show: l’invasione degli sguardi è cominciata.
Molti programmi di
tendenza in questi anni possiedono la forma di real soap. Gente più o meno comune
scelta tra migliaia di volontari sono votati allo
svelamento delle loro intimità. La “Casa di vetro” (già descritta da Eisenstein nel ‘29 in un suo soggetto per un film mai
realizzato) aperta stanza
dopo stanza agli sguardi voyeur
di chi, attraverso telecamere osserverà – pagando – senza essere visto.
Sembra un’altra forma di Peep-art teorizzata dal De
Niro dei primi film di Brian De Palma. Può
rubare fotogrammi proibiti entrando quando vuole nel salotto, in bagno, in
sauna, in camera, spiando con mano sapiente di regista (anche questo può
fare il satellite…) le vite di chi le ha messe in
vendita. In una situazione limite con la perversione e la psicosi, pur
d’essere lì i personaggi accettano tutto, scoprono angosce, cattiverie, paure inganni e
frustrazioni legate alle dinamiche di ciò che si può definire un “gruppo
confinato”, finora prerogativa dei Kammerspiel tedeschi degli
anni ’30 o dei film western, quelli di accerchiamento di un fortino da
parte degli indiani – poi trasposte mirabilmente nel cinema del
“confinamento” di Hitchcock, di Carpenter e di qualche loro epigono hollywoodiano.
Situazioni da cavie, topolini da laboratorio od oggetti per lo show. Cosa
muove questo dispendio di energie, capitali,
desideri? Sara West (una delle prime abitanti delle “case di vetro” su
Internet che mostrava la sua vita privata per 50 sterline alla settimana) spiega: “ Mi è piaciuta l’idea di
diventare un oggetto di adorazione universale. Penso che sia il miglior
modo per diventare famosa e trovare nuovi amici”. L’impatto e l’interesse
per questi “oggetti-spettacolo” è enorme se
osserviamo l’audience stratosferico (100 milioni di spettatori alla
settimana per esempio per osservare in America “Jennifer” nel ’99) o gli ingorghi di traffico
provocati a Santiago del Cile
da Manuela Tabor, esposta nella casa di vetro
(questa volta realmente di
vetro) dell’architetto De Souto Morales nel 2000. Progetto poi sospeso a causa di
quelle imprevedibili conseguenze di “disordine
sociale”. Una comparsa del film
culto Truman Show di Peter Weir, 2000, dice en passant : “Per me non c’è
alcuna differenza fra la vita pubblica e la vita privata, la mia vita è il
Truman Show (“True Man Show”, spettacolo dell’uomo vero) e il Truman Show è uno stile di vita, una vita
esemplare”. Ma se per Jennifer o Sara si potrebbe ragionevolmente ritenere
che fonte dell’universale interessamento risiederebbe nella loro manifesta
avvenenza, cosa spingerebbe un essere comune ad essere attratto dalla vita
comune di un altro essere comune, anche non “esteticamente corretto” per
intenderci; perché questa possibilità di
esperienza non ci fa orrore ma piace, tanto da spingerci a comprare
prodotti che eventualmente egli sponsorizza? Perché fa audience e non manicomio?
Per Michel Foucault il
conseguente paradigma spaziale (lotta
tra Luce e Buio,
Trasparenza e Opacità) fu costruito da una iniziale Paura, quella propria
dell’Illuminismo nei confronti dello “Spazio buio, la noia e l’ansia, che
annulla la piena visibilità delle cose, dell’umano e della verità.”
Era appunto la grande
paura del buio che portò il tardo ‘700 ad esplorarlo, tramite l’interesse manifesto ed il fascino per le
aree ombrose, i muri di pietra
sopravvissuti (ma anche ricostruiti…), l’oscurità, i nascondigli e le
prigioni segrete: tutto il negativo cioè di quell’esigenza di trasparenza
e visibilità. -------------------------------------------------- (ix) Paura della Luce. Fotofobia (e Foto-ipersensibilità la
malattia del Vampiro e dei due bambini/fantasmi di Nicole Kidman in The Others di Amènabar): si
può avere “paura della luce”? Se tale parametro annulla, cancella
inondando tutti gli altri parametri audio(tacto)visivi è chiaro che il risultato è, più che
paura, inquietudine da disorientamento visivo, non ritrovando parametri
spaziali che il bianco accecante (di nuovo l’interdizione visiva, a cui si
giunge però dalla strada opposta alla precedente) annulla sostituendovisi interamente. Nel cinema, situazioni di
tale genere vengono evocate dalle stanze o ambienti completamente
bianchi, dove i personaggi sembrano essere sospesi nel nulla luminoso
di una luce onnipresente e indagante. Nel film di Gorge Lucas, THX 1138
- L’uomo che fuggì dal futuro (1971) i due amanti fuggenti si
ritrovano confinati dall’autorità terrestre in uno spazio completamente
bianco e annullato, dove qualsiasi particolarità è bandita e dove
nient’altro che non sia chiaro, luminoso, retto, può sussistere. Ai due
così non rimane altro che abbracciarsi prima della separazione. Situazione
analoga la ritroviamo in un passaggio di Matrix, 1999, dei F.lli
Manchewski (il programma omonimo viene messo in
stand-by e la scenografia si annulla in un
bagliore accecante). Ma, rimanendo tra i “capostirpe”,
nel Carmelo Bene di Un Amleto di meno (1973) il principio
di confusione si attua nel guardaroba teatrale mostrato come collezione
coloratissima di oggetti in un ambiente luminosissimo e bianchissimo,
dai confini incerti, ancora una volta cancellati. La cancellazione dei
tratti particolari di una scenografia come espediente confusionale e
in antitesi con qualsiasi determinazione morale o religiosa “alta” della
luce viene continuamente usata dai cineasti
in molte maniere. Il finale “accecante” di Greed di Stronheim ad esempio. Shining di Kubrick, anche: tutto l’orrore delle stanze dell’Overlook
si materializza non nel buio gotico a cui i mostri e le haunted houses
della Universal (dagli
anni ’30 in poi) ci avevano abituati, bensì nella luccicanza dei vari ambienti a cui l’aspetto scenografico
stesso rimanda (la Gold Room, i bagni, l’androne con
il caminetto acceso, la neve bianchissima degli esterni e del labirinto,
i metalli scintillanti delle enormi cucine). Il biancore “terribile”
dei bagni (con un curioso cortocircuito, questa del bianco, con l’idea
di colore funebre per eccellenza in Oriente), dove l’orrore può erompere
cioè in tutta la sua evidenza, e il sangue è ancora più rosso nel caso
di omicidi violenti, questa evidenza bianca la ritroviamo nella doccia
di Psycho (accuratamente ripulita
da Norman Bates) e nelle innumerevoli scene-citazioni dei sequel. Nel secondo capitolo, ad es., diretto nell’82 da Richard Franklin, dove l’omicidio non si verifica come
nel prototipo hitchcockiano ma è assai più
orrendamente rivelato dall’intasamento “ematico” dei sanitari, scena
ripresa uguale dal finale rivelazione “shining”
di La Conversazione, di Francis Ford Coppola 1974,
oltre che post-modernamente riutilizzate anche da Brian De Palma in
Vestito per uccidere, 1980, e Scarface, 1983, con la quasi
insostenibile scena della vivisezione nella vasca da bagno, e da Le Verità Nascoste (What Lies Beneath, 2000) di R. Zemeckis le cui sulfuree scene di visione medianica
e tentati omicidi si attualizzano proprio negli arredi e nella vasca
del luminoso e vaporoso bagno della villa.
[2]
Il discorso ritorna poi
sull’uso della luminosità eccessiva e cancellante anche per il caso delle
nebbie e vapori bianchi che confondono, sotto tale lettura assai simile al
caso dell’oscurità, dove s’interdisce la visione
e la possibilità di difendersi. Il fumo e la nebbia che cancella è uno dei
principali mezzi di confusione delle variabili (già affrontato da Vidler nel suo Architectural Uncanny) e l’utilizzo nei film ne giustifica
principalmente due situazioni o passaggi chiave del plot: il salto temporale in avanti e
indietro (ad esempio nel noir, come in La donna del ritratto, F.Lang, 1944, o in Le catene della colpa- Out of the Past, J.Tourneur, 1947),
e la messa tra parentesi di una
sequenza astratta dal contesto narrativo
tramite cancellazione del
profilmico di disturbo, come nelle scene della nebbia nel già citato The Others, di Amenabar,
dove la protagonista ritrova misteriosamente il marito partito in guerra.
O ancora in Deserto Rosso, 1964, di
Michelangelo Antonioni, nel momento in cui
Giuliana, la protagonista Monica Vitti, vi si perde volontariamente
negandosi alla vista degli amici. Cancellazione del set-fondale profilmico
che avviene anche nel successivo Il
Mistero di Oberwald, 1981, uno dei primi esperimenti di
ripresa e di regia elettronica, durante il dialogo tra amanti che si situa
in uno spazio astratto, azzurro, in dissolvenza elettronica dalla stanza e
dagli arredi del contesto. Questo uso del fumo,
della nebbia, della luce e del buio è finalizzato espressamente per
disorientare, i protagonisti e il pubblico, proprio come accadrebbe in
tali frangenti nell’esperienza quotidiana. -------------------------------------------------- (x) La
profondità dell’occhio. Un
paradosso dell’esperienza: “La profondità di campo
dell’obiettivo permette la proiezione sul piano di un parallelepipedo di
realtà uniformemente netto. Indubbiamente questa nettezza sembra, a prima
vista, essere quella stessa della realtà: una sedia non è sfocata perché
non ci mettiamo a fuoco su di essa; è dunque giusto che sia a fuoco sullo
schermo. Ma l’avvenimento reale ha tre dimensioni; ciò sarebbe
fisiologicamente vedere simultaneamente netti il bicchiere di veleno, in
primo piano, sul tavolino da notte di Susan Alexander Kane [ma anche il
gufo e l’automobile in Blow out di De Palma,
N.d.A.],e la porta della stanza all’estremo limite della prospettiva. In
realtà, saremmo costretti a cambiare la messa a fuoco del nostro
cristallino […] (Bazin, Che cosa è il cinema?
Garzanti, Milano, 1999 (nuova ed.)., p.102)” Tuttavia noi percepiamo il quadro
totalmente a fuoco non come rappresentazione antinaturalistica ma come
ricostituzione di un’immagine mentale integrale ed esplorabile con
l’intorno di attenzione costituito dall’intersecarsi del piano ‘geometrico’ dello schermo proiezione con l’asse
d’interesse e focalizzazione
visiva: “Questo significa che
il lieve trucco implicito nell’immagine cinematografica uniformemente
netta non va contro il realismo, ma al contrario lo rafforza, lo conferma
ed è fedele alla sua essenza di ambiguità. Esso
concreta fisicamente l’affermazione metafisica per
cui tutta la realtà è sullo stesso piano [psichico, n.d.a.]. Il lieve sforzo fisico di aggiustamento maschera spesso, nella percezione,
l’operazione mentale che gli corrisponde […]. Al cinema, al contrario,
come in quei ritratti del Quattrocento in cui il paesaggio è netto quanto
il volto, lo spirito non può sfuggire alla purezza del suo atto di scelta,
i riflessi sono distrutti e l’attenzione viene
restituita alla responsabilità della coscienza.
(ibidem)” Superato questo punto
possiamo elencare le seguenti peculiarità dell’inquadratura
cinematografica, riassumendole in
punti principali, interpretabili perché no, anche come un ipotetico sistema di assunzioni per la
progettazione del décor di un film: - L’oggetto ripreso dell’inquadratura
ha una corrispondenza formale/percettiva con il piano reale. Tale
rapporto di corrispondenza biunivoca deriva dalle sue proprietà luminose
rese evidenti dalla
“scrittura di luce” (l’essenza fotografica del
cinema). - L’oggetto ripreso dell’inquadratura
assume un significato di indicazione più che di
raffigurazione: l’inquadratura rivela cioè una intenzionalità a monte
dell’atto rappresentativo, oltre che un’intenzionalità simbolica legata
all’oggetto che così “indica” (è un segno). - La profondità di campo fotografico è
affine a quella del cristallino oculare. Qualora il campo sia
“all’infinito” la superficie dell’immagine risulterà interamente nitida e
l’essere a fuoco o no viene assunto dalla possibilità di fissare
l’attenzione solo su certe parti dello schermo (si vede così
materializzato perfettamente la sinonimia linguistica tra le espressioni
“mettere a fuoco”, “focalizzarsi su” e “prestare attenzione”,
guardare). “È per questo che la
profondità di campo non rappresenta una caratteristica dell’operatore,
come l’uso dei filtri o un certo stile di illuminazione, ma
un’acquisizione capitale della regia: un processo dialettico nella storia
del linguaggio cinematografico. E non si tratta solo di
un progresso formale! […] essa influenza, assieme alle strutture del
linguaggio cinematografico, anche i rapporti intellettuali dello
spettatore con l’immagine, e quindi modifica il senso dello spettacolo.”
(Bazin, op.cit., p.88) L’effetto stereoscopico
è ottenibile anche con la visione monoculare (la visione è, abbiamo
constatato, psicologica): “Noi non dobbiamo
vedere la profondità nell’inquadratura, poiché è noto che l’effetto
stereoscopico si ottiene con la visione normale. È accettata l’opinione
per cui la visione stereoscopica si ottiene essenzialmente utilizzando
ambedue gli occhi. Ora, al cinema,
noi vediamo le cose con un occhio solo, quello dell’obiettivo, e
perciò anche lo schermo dev’essere piatto. Ma in
realtà la profondità viene percepita anche così. […]Fatto sta che ormai ci
siamo abituati allo schermo
e, nel riconoscere gli oggetti che vi appaiono, attribuiamo loro il
carattere tridimensionale che è loro proprio. La scenografia comincia a
vivere sullo schermo soltanto quando ottiene un effetto di profondità,
quando i personaggi vi camminano, quando viene per così dire consolidata.
[…] (Victor Šklovskij, “Le leggi fondamentali
dell’inquadratura cinematografica”, in I Formalisti
russi)” Infine la “teoria delle
attrazioni” di Eizenstejn, essenzialmente espressione degli effetti del montaggio, il
quale invece di “suggerire” un’emozione allo spettatore, essa la è. [3]
La rappresentazione
sullo schermo per Bazin è principalmente convenzione, ma noi ci sentiamo di
aggiungere, assieme al pensiero sulla Luce e sull’occhio, sul suo sguardo
consentito all’interno del set (anche sociale) da parte degli studiosi
affrontati in questo articolo, che essa gioca e costituisce per il pubblico
fruitore anche credenza, magia
dell’esistente, metodo conoscitivo, emozionalità intuitiva, piacere
estetico. Il cinema, il Mondo, tutto ciò che si può percepire
coscientemente e no, getta l’uomo in una serie infinita di associazioni e riconoscimenti felici, divenendo così
spettatori emozionalmente
attivi. -------------------------------------------------- appendice: L’occhio
scrutato/scrutatore. 16 Film dedicati al
tema: - Film (1965)di
S.Beckett/A.Schneider -
The Spiral Staircase (1946)di
R.Siodmak - Dark Passage (1947) di Delmer Daves -
David Holtzman's Diary (1968) di J.McBride -
Rear Window (1954)di Alfred
Hitchcock -
Vertigo (1958)di Alfred
Hitchcock -
Peeping Tom (1960)di
M.Powell - Blow Up (1966)di M.Antonioni - 2001: A Space Odissey (1968)di S.Kubrick - Hi Mom!
(1970)di B.De Palma -
Someone is watching me (1978)
di J.Carpenter -
Altered States (1980) di
K.Russell -
The Dead Zone (1983)di
D.Cronenberg -
Body
Double (1984)di B. De Palma -
They Live (1989) di
J.Carpenter 21
scene Cult: -
la "cura Ludovico" in Arancia
Meccanica (S.Kubrick,
1971) -
incipit da Un Chien andalou (L.Buñuel,
1929) -
le soggettive dell’alieno in
It came from outer space
(J.Arnold, 1953) -
la scena del labirinto guardato da Jack Nicholson in Shining (S.Kubrick, 1980) -
I Titoli di testa di S.Bass per Vertigo
(A.Hitchcock, 1958) -
finale da Sisters (B.De Palma, 1973) -
la visione finale da Zabriskie Point
(M.Antonioni, 1970) -
il fulminante occhio nel cielo in Rhapsody in August (A.Kurosawa,
1991) -
le trasformazioni “a vista” di K.Shell in Destination Moonbase
Alfa -2°serie (G.&S.Anderson, 1975) -
l'occhio inseguitore alieno all'interno della casa in War of the Worlds (B.Haskin, 1953) -
il peep-show di K.McLachlan dall'armadio di Velluto Blu (D.Lynch, 1986) -
l'intensissimo peep-show nel pre-finale di Paris-Texas
(W.Wenders, 1984) -
finale da Professione: Reporter
(M.Antonioni, 1975) -
L'occhio che si affaccia dal cervello operato in The Dark Half (G.Romero, 1993) -
l'occhio ingurgitato (e sua soggettiva) in La casa II (S.Raimi, 1987) -
la soggettiva a infrarossi del killer che si avvicina a J.Foster in Silence of the lambs (J.Demme, 1991) -
L'ingrandimento televisivo dell'occhio di Laura Palmer nel serial tv Twin Peaks (D.Lynch, 1990) -
L'occhio rotolante di Cruise in Minority Report
(S.Spielberg, 2001) -
Lo sguardo vuoto come lo scarico della doccia nel celeberrimo omicidio in
Psycho (A.Hitchcock,
1960) -
Lo sguardo che uccide nel finale catastrofico di Carrie (B.De Palma, 1976) -
La pupilla del Tirannosauro al finestrino dell’auto in Jurassic Park (S.Spielberg, 1993)
|
[1] Drei Abhändlungen zur Sexualtheorie, Deuticke, Leipzig-Wien, 1905;
tr.it., ˝Tre saggi sulla
sessualità˝ in L’interpretazione dei
sogni. Psicopatologia della vita quotidiana. Tre saggi sulla sessualità,
Newton Compton, Roma, 1992, pp.517-575.
[2]
Da questo film
è assolutamente da citare per lo splendore perturbante della realizzazione (e
una delle poche volte dove gli effetti speciali non appaiono nella loro
devastante evidenza, essendo usati esclusivamente per ottenere risultati
emozionali e invisibilmente istrionici) la scena della rivelazione del fantasma
attraverso una frase che appare tramite le sgocciolature sullo specchio
appannato, l’uso perturbante dei vapori e dei riflessi del pelo d’acqua che
anticipano le visioni più tradizionalmente
“cadaveriche”, rivelanti un omicidio commesso dal marito della protagonista anni
prima. Zemeckis fa della citazione un’arte mai
invadente (come può apparire invece quella di De Palma, che si compiace di avere
sulla spalla il suo pappagallo – o avvoltoio? - hitchcockiano), capace al contempo di riportare alla
memoria, tramite queste scene descritte, film quali il già citato Psycho, Il Corvo (1943) di Henri-Georges Clouzot, un'altra
storia di “omicidio e cadavere in vasca”, La morte corre sul fiume (The Night of the hunter, 1955) di C.Laughton (la scena del cadavere perlustrato sott’acqua),
Nanny la governante (1955) di Seth Holt per l’omicidio (Avvenuto? Supposto?) della Davis.
[3]
Bazin, sul
montaggio delle attrazioni: “[è] il rafforzamento del senso di un’immagine
mediante l’accostamento di un’altra immagine che non appartiene necessariamente
allo stesso avvenimento […] ma si può considerare assai vicina al suo principio
la pratica molto più diffusa dell’ellissi, del paragone
o della metafora […] (Bazin, A., op.cit.)”