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Le
città invisibili. Le ragioni di una scommessa. |
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di Kiara Pipino |
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CITTA’ & SPETTACOLO Oggi più che mai la città contemporanea si misura con la comunicazione, lo spettacolo per veicolare l’idea della propria immagine…arricchendone l’immaginario… E’ in questa dimensione che si è sviluppato il Master in architettura per lo spettacolo oggi alla terza edizione, di livello internazionale, con la straordinaria partecipazione di Svoboda, Ronconi, Santiano…dello Studio Azzurro, di Padovani e Luzzati, Maggiani e Gino Paoli, oltre a Fiorato, Gallione,Sciaccaluga…persino Coppola di MTV… diversi progetti urbani si sono sviluppati, sperimentando installazioni, rappresentazioni di teatro itinerante, piano delle luci…Simulazioni per rileggere lo spazio, per acquisire nuovi strumenti, per comprendere parti di città dimenticate riguadagnando il senso dell’uso pubblico con partecipazione e interazione…Comprendere la storia dei luoghi, riconnettere le fila con passati remoti e vicini, circuitare storie e leggende… ricostruire narrazioni. Qui sta il senso del testo dell’Arch. Kiara Pipino che descrive un’operazione urbana tra progetto e teatro, tra scenografia e ricomposizione urbana… Brunetto De Battè |
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La
scenografia è l’elaborazione spaziale di un’idea, esattamente come
l’architettura. La differenza sta nella scala, nei materiali e nelle
prospettive di durata. L’eterno contro l’effimero, il vero contro il
falso, il sacro contro il profano. La serietà contro una presunzione di
facezia.Il rapporto diretto tra le due
discipline diventa di
straordinario interesse teorico e pratico, un vero e proprio laboratorio
di sperimentazione spaziale e teatrale a contatto diretto con
fruitori più o meno casuali, stupiti, incuriositi. Nel
caso delle installazioni scenografiche per lo spettacolo “Le città
invisibili”[1],
in scena a Rapallo il 22
ed il 23 agosto 2002, uno degli intenti era proprio quello di far
relazionare l’esistente con l’immaginario, in modo tale da rendere
più labile il confine tra scenografia, architettura e tessuto urbano.
Per qualche ora infatti l’intero centro storico della cittadina
rivierasca si è trasformato in una colossale scenografia, in cui ciò
che
fino a qualche momento prima veniva considerato un normale scenario
urbano si trasformava in qualcosa di misterioso e sorprendente.
Interessante vedere come gli stessi abitanti si trovassero come straniti
di fronte a portoni, crocicchi e palazzi noti, famigliari.
Tutto
ciò in teatro. Nel
caso delle “Le città invisibili”,
la sperimentazione si è spinta proprio nella direzione
dell’integrazione pubblico/spettacolo. Portando la rappresentazione
all’interno del vero tessuto urbano infatti sono venute a cadere tutte
le barriere fisiche e psicologiche tra attori e spettatori ed
improvvisamente il pubblico si è trovato ad essere parte integrante di
quanto stava accadendo. Certo, “il bello della diretta” ha anche i
suoi lati negativi, purtroppo inevitabili, dovuti solo in modo molto marginale alla novità di quanto si
andava a presentare quanto per lo più legati ad alcune reazioni
poco rispettose, per non dire decisamente di cattivo gusto, da
parte di alcuni passanti. Disguidi
a parte, è interessante notare come la gente sia in un primo momento
stranita e quasi a disagio davanti a luoghi rimaneggiati e riutilizzati
in modo diverso da quello a cui sono abituati, ed è altrettanto
singolare notare come poi, una volta capito il meccanismo, quasi tutti
s’immedesimano nel nuovo “ordine” delle cose, cercando di scoprine
tutti gli aspetti. Per dirla con Pascoli, sembra che in ognuno si
risvegli fanciullino, che parte alla scoperta del nuovo mondo per dare i
nomi alle cose. Lo spettacolo, inoltre, movendosi come un corteo per le
vie e per le piazze ha goduto di un pubblico sempre diverso, per cui
l’effetto sorpresa-presa di coscienza-partecipazione non si è
praticamente mai fermato. La
scelta di intervenire sul territorio con delle installazioni richiama
una tradizione che più che strettamente teatrale si ricollega alle
esperienze artistiche dei Gutai, dei Fluxus e di Studio Azzurro ed alle
recenti sperimentazioni pertinenti l’architettura effimera. L’installazione
parte dal dato architettonico di contorno, lo utilizza e cerca di
integrarsi ad esso, o per lo meno cerca di stabilire un dialogo con
esso. Diversamente dalla semplice
scenografia teatrale, l’installazione è posta sullo stesso piano sia
rispetto al pubblico che rispetto agli attori, favorendo ancora una
volta l’integrazione pubblico/spettacolo. In molti casi, infine,
l’installazione gode di vita propria anche al di fuori
della rappresentazione teatrale, quasi nel tentativo di
raggiungere lo status di scultura urbana. Lo
spettacolo portava “in scena” oltre quaranta tableaux tratti dalle
“Le città invisibili” di Calvino, mentre le installazioni urbane si
limitavano a dodici, il che fa capire quanto sia stato importante ed
impegnativo il lavoro della compagnia. Le
città si snodavano lungo un percorso, tortuoso come il viaggio
affrontato da Marco Polo, sfruttavano anfratti urbani, cunicoli, angoli
dimenticati del tessuto rapallese. Un tragitto non sempre chiaro, che
lasciava il pubblico libero di seguire gli attori, o di trovarsi una
strada alternativa per poi ricongiungersi al corteo; ancora una volta,
si dava agli spettatori la possibilità di scegliere, di essere parte
attiva di un artificio razionalmente costruito. Si è tentato di
“bombardare” il pubblico di stimoli, in modo tale da forzarlo
gentilmente ad entrare in un stato fisico-mentale costruttivamente
ricettivo e piacevolmente reattivo. Camminando
tra la gente, sbattendo contro la gente, rivolgendosi alla gente,
compiendo gesti quasi rituali e minuziosamente ritmati gli attori davano
vita ad Ottavia, ad Adelma, a Rissa, Berenice, Tamara, Clarice….ogni
gesto era studiato per essere enfatico o evocativo. Un plasticismo
corporeo che genera, a seconda dei casi, spazi, emozioni o semplicemente
sensazioni. Ogni gesto è necessario
in quanto utile alla rappresentazione ed alla comprensione, e
questo giustifica l’abbandono della naturalità o qualsiasi pretesa di
realismo. Ancora quindi una volta, la lezione di Craig si sente forte e
chiara, attualissima. L’operazione
diventa interessante anche per i materiali utilizzati nelle stesse
installazioni, cioè di oggetti comuni –porte, finestre, persiane
sacchetti di plastica e spazzatura di vario genere- decontestalizzati e
risistemati all’interno di un ordine nuovo, puramente arbitrario. Si
ritorna sempre alle problematiche connesse alla comunicazione ed alle
convenzioni ad esse correlate. Ad un segno, ad un oggetto deve
corrispondere sempre un significato, attribuito per convenzione dagli
appartenenti ad una stessa comunità. Si tratta di un principio
cartesiano, che nella quotidianità più automatica per molti versi
funziona ancora, almeno nelle sue linee più generali. Un esempio.
Prendiamo una persiana di legno, di quelle che siamo abituati a vedere
nella maggior parte dei centri abitati italiani. Le più comuni sono di
colore verde scuro. Ora,
una volta staccate dalle pareti, scrostate e pitturate di un qualsiasi
colore inusuale per il loro essere persiane e poi collocate in modo
diverso che non a schermare delle finestre, tali persiane non
ricondurranno soltanto al loro significato primigenio. E siccome non
esistono altri significati riconosciuti a cui fare riferimento, la gente
sarà portata a farsi delle domande, e quindi anche a cercare delle
risposte. Si scatena una ricerca affannosa e affannata di significati,
forse anche nel terrore di trovarsi di fronte a qualcosa che non mostra
alcuna pretesa di significato. Oggi, con il progressivo sgretolamento di
qualsiasi ideale e con la comunicazione che è diventata un dovere
piuttosto che un’esigenza, la ricerca e la scoperta di significati
sono diventate tendenze vitalistiche praticate e diffuse ovunque. È
necessario interpretare, trovare un significato, e comunicarlo. Alla
fine dell’Ottocento, Victor Hugo scriveva: “La letteratura ucciderà
l’architettura”. Oggi si potrebbe dire: “La comunicazione,
presunta o reale, soverchierà qualsiasi forma espressiva”. Il
contrario del “créer des liens”[6],
tanto per rimanere in ambito francese. Ma
continuiamo con l’esempio concreto. .…un
ulteriore paradossale rovesciamento delle situazioni, dei segni e dei
significati, ad indicare come l’impossibilità di un rapporto univoco
tra segno, oggetto e significato e la moltiplicazioni di questi ultimi
sia in fin dei conti un esercizio quasi casuale e comunque soggettivo
che può portare addirittura al tentativo di ristabilire l’ordine
cartesiano delle cose. Il
concetto della dematerializzazione è alla base dell’articolazione
spaziale di Diomira (figure 4 e 5 in allegato), suggestivamente
collocata in Piazza Venezia, restaurata di recente.
Diomira “…con sessanta cupole d’argento, statue in bronzo
di tutti gli dei, vie lastricate in stagno, un teatro di cristallo, un
gallo d’oro che canta ogni mattina su una torre….” Si è voluto
dare l’idea di una città come cristallizzata nel tempo, avvolta dal
fascino e dall’astrazione della rovina “archeologica”, da osservare alto e da una certa
distanza. Una città morta, con l’unico tocco di colore dato dal
gallo, travolta chissà quando, chissà come e da chissà quale
cataclisma. Un po’ come “Il pianeta delle scimmie”
[7], prima versione. L’atmosfera di sospensione
spazio-temporale è fomentata anche da un sapiente gioco di luci e
dall’uso della macchina del fumo; le masse bianche e leggermente
rilucenti delle cupole ricoperte di polvere di marmo e la plasticità
delle sculture sembrano fuoriuscire da un limbo misterioso e misterico. Il
positivo ed il negativo, il pieno ed il vuoto. Diomira e Leonia. La
pretesa d’immortalità e la frenesia del cambiamento (figura 6 in
allegato). Leonia
è la città che si rinnova continuamente, giorno per giorno,
ammucchiando nelle proprie strade i resti della Leonia del giorno prima.
Nel percorso dello spettacolo, Diomira e Leonia quasi si
fronteggiano in modo che l’una sia il tacito monito dell’altra, realizzata con gli scarti della prima. Una città di
spazzatura, ma di una spazzatura bianca, candida, pulita, ed in cui
il lavoro degli spazzini è quasi un rito “…circondato d’un
rispettoso silenzio…”, la massima astrazione della comune materialità. Una
ritmica scansione spaziale: Dorotea (figure 7 e 8 in allegato).
Racchiusa in una piccola e caratteristica piazza del centro storico
rapallese, l’installazione –con le sue superfici riflettenti e
l’impianto doppiamente simmetrico- definisce rapporti privilegiati tra
gli elementi, moltiplica le prospettive ed i punti di vista, in un
labirintico e disorientante gioco delle parti. Quattro “torri di
alluminio” delimitano il territorio di Dorotea, mentre la geometrica e
regolare disposizione delle pedane ne determina la scansione in
quartieri, ognuno dei quali rappresenta quasi un mondo a sé. Una forte
contrapposizione tra linee verticali e linee orizzontali, che si
intrecciano si scontrano e scaturiscono le une dalle altre. La
comunicazione, il movimento, tutto è influenzato dalla forma della città,
che racconta se stessa attraverso la vita dei suoi abitanti. Dorotea è
una città che “si guarda vivere”, come attraverso un vetro, ed
infatti il pubblico rimane al di fuori di essa, srotolato lungo i suoi
lati, i suoi confini. Un’altra città immaginaria, un’allucinazione,
un’altra oasi nel deserto della vita. Una sorpresa che si svela
improvvisamente lungo la strada, la solita strada di tutti i giorni,
e pronta a scomparire al prossimo passaggio. Scelte
registiche sapientemente dosate che creano immagini e forme da corpi e
che si adattano a luoghi disparati, come nel caso di Adelma, Anastasia,
Armilla e Zobeide (figure 12 e 13 in allegato). È il potere di un
teatro visuale, svecchiato dei virtuosismi e dell’autoreferenzialità,
che nasce tra la gente e per la gente e che non pretende di rinchiudere
la cultura all’interno di un contenitore stagno. La
forza e l’immediatezza delle immagini semplici, come per Argia,
Marozia ed Eudossia, (figure 14, 15 e 16 in allegato) macchie di colore
e forme definite, animate da un movimento interno, a sottolineare
l’inaffidabilità della pura apparenza e la fedeltà al racconto di
Calvino. Argia,
città sotterranea che viene guardata dall’alto, in cui gli abitanti
sono come vermi che strisciano nei cunicoli colorati al di sotto di un
improbabile prato fiorito, a due passi dal mare. Eudossia,
città che si specchia in e rispecchia un tappeto, un disegno perfetto
ed imperscrutabile di un’idea. Un tappeto che è come una sfera di
cristallo, in cui “….ognuno può trovare nascosta tra gli arabeschi
una risposta, il racconto della sua vita, le svolte del destino”.
Marozia, la città delle rondini e dei topi, della voglia di spiccare il
volo e dell’incapacità di staccare i piedi da terra, per cui anche le
rondini sono, in realtà, delle specie di stendardi fissati ad una certa
altezza ed incapaci di muoversi. L’anelito di libertà e di
cambiamento che si compiace di se stesso, consapevole delle potenzialità
insite nel suo essere in
fieri tanto da rimandare continuamente la fase esecutiva. Più
sottile l’interpretazione sottesa alle installazioni pertinenti
Moriana e Andria
(figure 17 e 18 in allegato), la città doppia e la città che si
specchia nel cielo. La prima, priva di spessore, cerca di mostrare ai
visitatori la migliore parte di sé, la sua opulenza; ma il visitatore
entra, gira, scopre, fa girare la ruota. Ogni medaglia ha il suo
rovescio e non è tutto oro quello che luccica: muri neri e rifiuti
incrostati dietro la lampada magica e la ballerina, il lato oscuro e non
voluto di una presunta società splendente. Accenni di Burri e di Vedova
in un gioco di forme e di spessori. Andria invece è la città che muta
al mutare delle costellazioni, in cui ogni strada “… corre seguendo
l’orbita di un pianeta….”. Gli astri, i pianeti come tanti
palloncini nel cielo, quasi a formare un tetto. Palloncini che si
muovono, in alto come in basso, un po’ per volere divino, un po’ per
volere degli abitanti “…ogni cambiamento d’Andria comporta qualche
novità tra le stelle”. Il tutto, senza guastare l’ordine
e l’armonia che regnano sia in cielo che in terra. L’incertezza
di uno spazio scarsamente identificabile è alla base
dell’installazione per la città di Zemrude (figura 19 in allegato),
che cerca di rispecchiare, in senso scenografico-archiotettonico, il
testo di Calvino. “È l’umore di chi la guarda che da alla città di Zemrude la
sua forma”. Due
cubi realizzati con materiale non immediatamente identificabile, che
celano o rivelano ombre o persone, in un susseguirsi ritmico di
movimenti ed indecisioni. Le strutture, per la loro natura geometrica,
definiscono uno spazio preciso, una specie di trappola, che tuttavia
rimane evanescente e quasi impercettibile; è uno spazio che si
smaterializza nel momento stesso in cui viene percepito. È come una
parentesi che si apre e si chiude in un discorso, che aggiunge
significato senza per altro distogliere l’attenzione dalla meta
finale. “sa,
è esaurito….sarà per via dello spettacolo dell’altra sera…l’ha
visto?…bello..interessante. Comunque abbiamo già fatto richiesta alla
casa editrice. ….magari la settimana prossima…” “Lo
spettacolo?” “No,
il libro” “Ah:” [1]
Lo spettacolo è stato tratto dal romanzo di Italo Calvino “Le
città invisibili” pubblicato per la prima volta nel 1972. [2]
I Bold Fish sono una compagnia formata da sette tra attori e
registi: Lynne Forbes, Mark Griffin, Matthew Hahn, Leone Hamman,
David Humeau, Deborah Newbold, Lily Pende e Carlos Vesga.
Tutti e sette hanno portato a termine i propri studi teatrali
al Goldsmiths College. [3]
Robert Gordon è il direttore del Drama Department del Goldsmiths
College dell’Università di Londra. Di origine sudafricana, Gordon
vanta numerose regie teatrali di successo. In Sudafrica ha anche riscosso successo come attore,
recitando in 50 radio drammi ed in 15 produzioni teatrali. [4]
Secondo Craig, rispetto al Dramma del Silenzio
“….i drammi non dovrebbero mai dire nulla…. Le azioni i
sentimenti suscitati non dovrebbero mai avere una conclusione,
dovrebbero rimanere un mistero; e il mistero un attimo dopo la
conclusione non esiste più; il mistero muore non appena toccate
l’essenza delle cose o appena la vedete con chiarezza.” Da G.
Attolini, Gordon Craig. Il teatro del XX secolo, Roma-Bari, Laterza,
1996. [5]
Il “moment of being” è, secondo Virginia Woolf in “The Common
Reader”, quell’attimo
in cui la percezione dell’uomo è spinta alla massima intensità,
per cui diventa possibile comprendere ed analizzare gli stimoli, che
come atomi, ci bombardano in modo disordinato e disorganizzato
creando la nostra esperienza giornaliera di vita. Chiari i
riferimenti culturali e filosofici alle teorie di Bergson e di
William James. [6]
Da Antoine de Saint-Exupéry, “Le petit prince”, 1943. [7] Film del 1967 diretto da F.J. Schaffner, con Charlton Heston e Ki |
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