Allora
ci vediamo stasera? Si Vediamoci! Guardiamo il film su Kahn?
Certamente rispondiamo tutti in coro. Si chiude lo studio dopo
una giornata lavorativa, è gia buio, fuori fà
freddo, ma non si chiude completamente lo studio, almeno una
sua parte rimane aperta quella del coraggio, quella della ricerca
paziente, della passione... riaprirà tra poco per vedere
il film e come di consueto parlare di Architettura. Noi siamo
fatti cosi, a volte, quando le fatiche della bottegace lo consentono
ci ritroviamo sui tavoli che ci hanno visti "professionisti"
durante la giornata e si inizia a fare una sorta di "sopralluogo"
reale e virtuale su un'architettura o su un architetto. Sogniamo
in modo che i sogni e le nostre speranze di architetti ci possano
servire giorno dopo giorno nella dura lotta alla sopravvivenza,
perchè per noi fare gli architetti è una vocazione,
tale e quale a quella di un prete o un frate. Cito a tale proposito
Claudio
Silvestrin che nello scritto "IO NO" apparso sulla
sua postazione web afferma:
"Vivere in modo religioso il mestiere
dell’architetto contemporaneo comporta un dolore psicologico
quasi permanente. Chiarisco, non parlo di religione riconosciuta
e istituzionalizzata, ma di attitudine religiosa, seria, profonda,
rigorosa, sana, integra. Una roccia contro la corruzione dilagante,
con fede ferrea nella propria missione e nel dono del proprio
talento che si vuol offrire per la soppravvivenza della sensibilità
nel mondo. Proporre poesia dello spazio con novità e
individualità provoca incertezza e incomprensione, l’interlocutore
si sente spiazzato"
Stasera tocca a Luois Kahan. Salgo in macchina
velocemente, faccio le mie telefonate di rito, sfreccio in macchina
sull'Aurelia per arrivare il prima possibile a casa e mangiare
un boccone perchè alla nove ho l'appuntamento con i miei
colleghi e con Kahn. Che pazzi che siamo! Litigo con chi non
capisce, non comprende (e non ci prova neppure) la mia passione
il mio modo di vivere che alterna un uomo blasé ad uno
fin troppo borderline. Litigo ma sono convinto che non sbaglio
nel continuare a credere a questo mio lavoro e soprattutto a
continuare a essere convinto che la mia sensibilità non
vada lasciata in pasto alla corruzzione al cattivo gusto.Chi
ci da il coraggio e la forza di fare le ore piccole oltre che
per un concorso o un progetto che non torna ...anche per discutere
di architettura? La nostra passione viscerale, la nostra poesia
nell'affrontare questo lavoro meraviglioso, frustrante e accattivante
alla stesso tempo..la consapevolezza che prima di noi ci sono
stati uomini, architetti, che ci hanno creduto, hanno continuato
a lottare per un "idea". Persone come Kahn che hanno
lasciato il segno. Noi non lo lasceremo, non abbiamo tale presunzione,
ma in fondo crediamo alle nostre idee, al nostro impegno e forse
questo lo abbiamo imparato e dobbiamo impararlo dai grandi maestri.Buona
visione, buona lettura...
Giacomo Airaldi.
p.s. grazie a mario, francesca, milo perchè
rendono possibile ogni giorno tutta questa magia!
All'ombra
della luce bianca
di Mario C. Rossi
Il film di Natanhiel Kahn “My Architect” è
un inganno.
È un piacevole inganno perché dietro ad un’apparente
ricerca documentaria sulla vita del padre, uno dei figli illegittimi
di Louis Kahn, Nathaniel Kahn, articola e costruisce una storia,
quasi un viaggio di indagine, che scorre attraverso una vita
raccontata, forse inventata o ancor più sperata, e percorre
cadenze narrative personalissime fino a giungere ad un finale
compiuto e commovente che sicuramente poco ha da vedere con
un semplice documentario.
Il finale di My Architect, seppure celato dietro ad una conclusione
di sicuro impatto emotivo, è un momento da cui parte
una ricca tessitura di riflessioni contaminate da un seducente
intreccio di contenuti intellettuali, sentimentali, familiari,
personali.
La visione di questo film induce a riflettere su un architetto
la cui opera, sebbene conosciutissima, è sfuggita alle
rapaci catalogazioni critiche caratteristiche della seconda
metà del Novecento, e pertanto lasciata decantare negli
spazi della memoria più intimi e forse meno esplorati.
Louis Kahn è raccontato come un personaggio esistito
molti secoli prima, il quale lasciò un’opera letta
oggi come fosse disegnata da un classico del passato la cui
biografia dovesse essere ricostruita attraverso testimonianze
aliene alla sola opera grafica.
In parte è davvero così: Nathaniel, quasi scadendo
in una amara personale istruttoria sulle motivazioni che tanto
segnarono la sua sofferenza di bambino, corre il viaggio di
ricerca attraversando il mondo che accoglie le opere del padre,
adottando la tecnica dell’intervista tipicamente americana
scandita da profondi intervalli di riflessione e da curiosi
siparietti dal sapore intelligentemente yankee. Uno su tutti:
dopo l’episodio su “la verità sul bastardo”,
è memorabile la dissacrante sequenza della passeggiata
del bastardo Nathaniel con un paio di algidi barboncini cotonati
di pura razza.
Tuttavia la testimonianza diretta di molte persone che conobbero
“Lou” Kahn conferisce la giusta collocazione temporale
del soggetto della ricerca, e soprattutto costruisce una dinamica
mitica alla definizione del personaggio Louis Kahn protagonista
nel film forse ancor più delle sue opere.
Per questo non sono sicuro che egli approverebbe questo aspetto
del film, ma questo è un altro discorso.
Il film tratta quindi la ricerca di una collocazione di un personaggio
che agli occhi del figlio ha assunto nel tempo differenti ruoli
e scomode posizioni personali ma, oltre a questo aspetto che
costringe alla fine lo spettatore ad una inevitabile amarezza,
quello che emerge è il vero messaggio architettonico
di Louis Kahn.
La concezione dell’architettura come uno sviluppo di articolazioni
formali mirate all’integrità, alla modellazione
di coerenti sintesi plastiche come saggio progettuale, all’utilizzo
della materia e non dei materiali come unico inequivocabile
mezzo espressivo.
Il film ad un tratto riferisce che la architetture di Kahn in
Bangladesh durante la guerra non furono bombardate in quanto
furono scambiate per antichi edifici monumentali. Ecco, il vero
obiettivo del progetto architettonico kahniano è squisitamente
espresso da questa considerazione.
Kahn ci dimostra che l’architettura è tutto, non
sono solo degli edifici.
L’architettura progettata è un saggio di composizione
di forme, luce e attività umane accarezzate dall’ambiente
generato dalla capacità del progettista; non è
un caso che più volte le persone intervistate da Nathaniel
Kahn definiscono Louis Kahn come un artista.
L’architettura secondo Kahn, quella progettata, è
un dialogo con Dio, e come tale, è un saggio d’arte.
Ciò che il film “My Architect “ riesce a
far comprendere chiaramente è quindi un concetto semplice,
come semplici sono sempre le intuizioni indovinate: Louis Kahn
è un architetto puro, non contaminato dalla moda novecentesca
di aderire alle banalizzazioni del linguaggio e dei linguaggi.
E’ un architetto totale, nel senso più radicale
sia dal punto di vista privato che da quello disciplinare; egli
si creò il suo modo di affrontare la problematica del
linguaggio invertendo il ruolo del linguaggio stesso, negandolo
quasi al punto di negare l’identità del luogo.
L’architettura di Louis Kahn, che forse essa stessa è
stata il vero Louis Kahn ancor più della sua vita, è
l’idea di unificazione della semplicità del materiale
con la volontà di comporre un insieme progettato. Una
unificazione che rimane silenziosamente disponibile a chi vuole
leggere le sue opere secondo il registro della fedeltà
alla disciplina progettuale come utilizzo del materiale per
comporre la forma; una unificazione che pare ruvida e priva
di appeal a chi intende l’architettura come una applicazione
di materiali su forme e idee dettate dalla tendenza fashion
del momento.
Louis Kahn ci ha fatto credere di aver inventato un linguaggio
personale. Invece no; ci ha insegnato che il linguaggio viene
dopo, quasi per ultimo rispetto alle ragioni plastiche del progetto,
ma non ce lo ha mai voluto dire.
In fondo, anche l’architettura di Louis Kahn è
un inganno.
Le
ferite di Louis Kahn
di Milo Matteo Marrancone
Il sipario è sceso. Il film di Nathaniel Kahn “My
Architect” è terminato, ma nessuno si alza.
Tante idee e pensieri affollano la mente…
Conoscevamo, in grandi linee, la vita e le opere “dell’artista
assoluto”, ma è stato interessante e commovente
sentir raccontare da Nathalien, oltre la propria storia di figlio
illegittimo alla ricerca del padre, delle sue radici, anche
la strana, difficile e personale vita del suo genitore, la cui
trama è ricca d’elementi che la rendono simile
ad un romanzo ottocentesco.
Una vita, una storia che nel film “inizia” proprio
con la morte del protagonista ed egli riesce benissimo a comunicarci
lo stupore, di quando scopre che il suo nome non compare vicino
a quello del padre, della sorella.
Immagini e sensazioni si accavallano nella mente e le opere
del nostro protagonista, definite opere d’arte, riappaiono
nella loro globalità e lucentezza. Con quanta passione
Louis Kahn parla d’architettura, progetta le sue costruzioni!
Egli non crede nei sentimenti, non crede nei suoi figli legittimi
o illegittimi, perché disprezza il proprio viso deformato…non
ama ciò che naturalmente è parte di sé
e continuerà a vivere nel tempo. Ma, qualcuno afferma
che voleva realizzare monumenti eterni…e anche su di loro
sono visibili le ferite, quasi volesse rendere le sue costruzioni,
simili a lui… e con la stessa passione di un padre, ama
le sue opere sopra ogni cosa.
La grande fortuna di Louis Kahn è di aver scoperto l’amore,
la passione per l’Architettura e, senza ombra di dubbio,
aver avuto una madre che diceva e pensava con ostinazione: «Louis,
dalle ferite che segnano il suo volto, trarrà la sua
forza…». Inoltre, come testimoniano gli intervistati
e l’architetto indiano, nell’imponente, maestoso
e bellissimo Palazzo del Parlamento a Bangladesh, affermando:
«L’abbiamo amato per la sua bellezza e dolcezza
interiore.
Egli era come un bambino».
My architect. Alla ricerca di Louis Kahn.
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di Kahn Nathaniel
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