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Calliope-Loredana Brugnoli e Maurizio Ambrosetti |
Prototipi realizzati dagli studenti del
Corso di Disegno Industriale, A.A.2004-2005 |
Tòrn-Emanuela Gualers |
“Tutta la teoria del mondo non vale
un singolo esempio pratico”
Anonimo
Il contenuto primario dell’Experience Design Seminar
è l’idea di mettere in campo una riflessione che
ammetta un confronto tra impiego e re-impiego, sia dal punto
di vista del materiale che da quello dell’oggetto comunicativo.
La sfida è stata quella di farlo non solo teoricamente
ma attraverso un seminario esperienziale, che mettesse ognuno
in condizione di tracciare il proprio percorso conoscitivo anche
per via operativa.
Il prodursi di valore e significato dell’atto-progetto
è da leggere come fatto esperienziale, ricorsivo e intuitivo.
Anche se può sembrare ovvio, cercando di spiegare quest’affermazione,
viene in mente che osservando esperimenti dove, alla riflessione
teorica si affianca l’implicazione attiva coi temi della
sostenibilità e del rapporto tra funzione e forma visti
come pratica operativa, il dato che emerge in modo chiaro è
che l’azione del designer non può prescindere da
una presa di posizione “politica” rispetto all’esperienza
progettuale (e all’esperienza in generale); e questo a
maggior ragione in rapporto ai contesti produttivi e alle pratiche
attive del progetto.
Sembra emergere nuovamente, come cifra del progetto, la messa
in valore della sperimentazione formale e compositiva; associata
al senso di responsabilizzazione del proprio agire (e dell’urgenza
di tale agire). Il principio di responsabilità valorizzato
e moltiplicato dall’impegno a sperimentare. Una posizione
questa che ricorda altri momenti storici.
Di fronte a tale slancio, la posizione postmoderna fondata
sull’impossibilità dell’originalità
e dell’autenticità, in un mondo saturo di media/messaggi
(spesso auto-referenziali), assume un’apparenza debole
e, per certi versi, obsoleta. Per altre vie và detto
che non è semplice liquidare l’attualità
postmoderna; tuttavia, dopo decenni, l’edificio teorico
del postmodern sembra essere al suo limite. Anche perchè,
con tutta probabilità, abbiamo assimilato le inequivocabili
conseguenze negative di tale atteggiamento.
In letteratura, nelle arti visive, nel design e nell’architettura,
le spinte al superamento delle convenzioni e le rotture stilistiche
e formali, legate a spinte rivoluzionarie secondo le quali l’arte
può contribuire alla formazione di una società
migliore, convivono con atteggiamenti di conformismo e di ripetitività.
La reazione e l’opposizione può essere allora letta
come una radicale ricerca d’identità sociale, ricomprendendo
in essa anche il suo contrario: la dis-identità.
Ma come è possibile confrontare la teoria della forma
con l’area problematica del riuso, della riconversione,
del riciclaggio, dell’ecosostenibilità? Ed è
possibile, per questa via, dare una risposta alla domanda di
qualità (formale, estetica, politica)? Abbiamo tentato
di farlo adottando l’azione del piegare come “fattore
di costruzione” di questa implicazione.
In primo luogo affermando che la piega lavora, primariamente,
sull’aumento delle prestazioni del materiale (qualunque
esso sia) attraverso l’irrigidimento e l’indebolimento.
In secondo luogo stabilendo che la piega determina un metodo
di assemblaggio che può costituire, da solo, un fine
progettuale. L’azione di piegatura, infatti, determina
una forma, anzi per meglio dire un corpo che attribuisce la
fisicità organica all’oggetto, conferendogli armonia,
ottenendola attraverso una notevole economia di mezzi e di metodo
per raggiungerla.
Inoltre l’atto del piegare è utile anche per introdurre
il concetto di forza agente nell’oggetto; in questo modo
l’interno e l’esterno della piega non costituiscono
solo limiti statici ma, come fenomeni prodotti da azioni, determinano
l’involucro come parte dinamica del manufatto. Al limite
la forzatura può portare ad una rottura, quindi ad una
discontinuità e ad un’ulteriore declinazione dell’oggetto
piegato. Questo è stato, in estrema sintesi, il nostro
percorso nella piega come strategia di progetto.
Tuttavia questo scenario non è sufficiente a definire
il contesto operativo nel quale s’intendeva agire, perché
non si è ancora sottolineato sufficientemente che le
implicazioni dell’atto del piegare, anche come snodo metodologico,
vanno ben oltre le considerazioni effettuali. Il ripiegamento
del caos indifferenziato (il fuori) nel pensiero progettuale
(il dentro), nella lettura metaforica che ne fornisce Deleuze,
è uno spunto assai importante per scoprire il valore
della libertà progettuale. Questa posizione comporta,
infatti, una riflessione sul pensiero progettuale considerato
non solo come contemplazione di esternalità, estrazione
di regole e infine applicazione di algoritmi a “strutture”
esterne predefinite, a elementi di un tutto unitario. Come sostiene
Davide Tarizzo, nell’introduzione al libro di Deleuze
sulla piega, il pensiero (aggiungeremmo progettuale) è
(e deve essere) libero; è un pensiero in cammino. Tale
instabilità in divenire è iscritta nel reale e
la piega (nell’immagine deleuziana come nella realtà
fattuale del progetto) non è altro che un movimento caotico,
che libera e rende possibile l’agire del progetto.
"La qualità della forma è qualità
del linguaggio,
e la qualità del linguaggio è qualità politica"
(Enzo Mari)
C’è poi un ulteriore punto che và sottolineato.
Il design è espressione di qualità, altrimenti
non è design. Nella sfida per la ricerca della qualità
il design iscrive, ormai completamente, la produzione industriale
in quello che un tempo era considerato un “valore aggiunto”
e che oggi è il valore primario e irrinunciabile degli
oggetti. Diviene pertanto molto importante il ruolo di coloro
i quali “pensano forme”. Una via per il designer
è perciò quella di essere ideatore di forme che
possano prefigurare nuove idee, nuovi contesti, nuove strategie
di coinvolgimento della sfera psicologica e di quella sociale;
con lo scopo d’incorporare qualità. Per fare ciò
egli deve essere in grado di rappresentare tale qualità
(per se stesso e per gli altri) non solo nella forma materiale
ma anche nel contenuto simbolico. Mentre nella produzione artigianale
la forma si realizza e modifica anche durante la lavorazione,
determinando un’osmosi continua tra forma, linguaggio
e contenuto sociale dell’oggetto; nel prodotto industriale
è necessario un progetto d’interazione, che ne
preceda, in un certo senso, la costruzione. Prescindendo anche
da un approccio legato alla ricerca di soluzioni contingenti.
In effetti oggi il design si occupa di questioni di natura funzionale,
tecnologica e culturale. Oltrepassando spesso i suoi limiti.
Per questo il nostro approccio è stato quello di puntare
all’essenzialità, alla sostenibilità, alla
personalizzazione. Abbiamo ragionato come se ci trovassimo in
uno studio di progettazione dove anche i problemi teorici si
affrontano in maniera finalizzata e pratica. Con l’intento
di predisporre una risposta. Tanto funzionale quanto “politica”
che risolva il contingente ma, allo stesso tempo, ricostruisca
lo scenario nel quale s’intende operare. Senza un approccio
teorico unico ma mettendo in scena la complessità dell’iter
progettuale.
Questo approccio prevedeva l’intento di responsabilizzare
il progettista per quanto riguarda le soluzioni adottate in
relazione ai prodotti. Nel percepire il legame tra consumatore
e artefatto sia sul versante delle tecnologie che su quello
della sostenibilità di prodotti e sistemi di prodotto.
Per poter fare questo era necessario capire l’evoluzione
dei bisogni interrogandosi sul vero valore del design. In quest’ottica
abbiamo riflettuto sul termine ecologia. Il senso che ci è
sembrato più valido è quello indicato da Felix
Guattari che lo esprime nel rapporto tra la sfera ecologica
sociale, quella psicologico-comportamentale e quella fisica.
Come osserva Lucien Kroll chi si concentra sugli aspetti fisici
e psicologici o si accontenta di economizzare energia è
certamente virtuoso ma rispetto all’ecologia è
scandaloso perché spendere o economizzare denaro è
sempre mercantizzare il pianeta. In altre parole ci è
sembrato strategico enucleare quali comportamenti ci stiano
imponendo gli oggetti che progettiamo/produciamo. Oggetti che
ci assediano, ci soffocano, sono spesso falsi e lontani. Un
dark side of design di oggetti tutti uguali che ci impongono
gli stessi gesti e ci fanno dimenticare di sentire, di toccare,
di pensare. Ma la verità siamo noi non le cose e il progetto
non è vero se non ha a che fare con la vita.
Il design è una cultura trasversale non perché
i suoi saperi siano compositi (e poggino su discipline diverse)
ma perché rappresenta due mondi diversi: quello del misurabile
e quello del non misurabile (emozioni, memoria, scoperta del
nuovo, benessere, qualità). La nostra scommessa è
stata quella di pensare che se la vita attuale è ridotta
alla fenomenologia del muoversi e del fare può essere
l’arte a riproporre all’industria il problema di
un fine. Proprio in quanto la sua qualità estetica non
è riducibile alla “qualità” di prodotto.
Può essere per questa via che il rischio d’innovare
e di prendere posizioni non conformistiche possa rientrare a
far parte delle prerogative del progettista. Un sogno che diventa
collettivo può avere il potere di orientare, attraverso
il tempo, la crescita della tecnologia. Certo dobbiamo chiederci
chi sarà a diffondere sogni: il poeta, il filosofo, l’artista,
il designer oppure il mercante? Noi ci auguriamo che siano sempre
più i primi e sempre meno l’ultimo.
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