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All'ombra della luce bianca

di Mario C. Rossi
riflessioni attorno al film "my architect" di Natanhiel Kahn

Le ferite di Louis Kahn

di Milo Matteo Marrancone

presentazione di Giacomo Airaldi

 

Allora ci vediamo stasera? Si Vediamoci! Guardiamo il film su Kahn? Certamente rispondiamo tutti in coro. Si chiude lo studio dopo una giornata lavorativa, è gia buio, fuori fà freddo, ma non si chiude completamente lo studio, almeno una sua parte rimane aperta quella del coraggio, quella della ricerca paziente, della passione... riaprirà tra poco per vedere il film e come di consueto parlare di Architettura. Noi siamo fatti cosi, a volte, quando le fatiche della bottegace lo consentono ci ritroviamo sui tavoli che ci hanno visti "professionisti" durante la giornata e si inizia a fare una sorta di "sopralluogo" reale e virtuale su un'architettura o su un architetto. Sogniamo in modo che i sogni e le nostre speranze di architetti ci possano servire giorno dopo giorno nella dura lotta alla sopravvivenza, perchè per noi fare gli architetti è una vocazione, tale e quale a quella di un prete o un frate. Cito a tale proposito Claudio Silvestrin che nello scritto "IO NO" apparso sulla sua postazione web afferma:

"Vivere in modo religioso il mestiere dell’architetto contemporaneo comporta un dolore psicologico quasi permanente. Chiarisco, non parlo di religione riconosciuta e istituzionalizzata, ma di attitudine religiosa, seria, profonda, rigorosa, sana, integra. Una roccia contro la corruzione dilagante, con fede ferrea nella propria missione e nel dono del proprio talento che si vuol offrire per la soppravvivenza della sensibilità nel mondo. Proporre poesia dello spazio con novità e individualità provoca incertezza e incomprensione, l’interlocutore si sente spiazzato"

Stasera tocca a Luois Kahan. Salgo in macchina velocemente, faccio le mie telefonate di rito, sfreccio in macchina sull'Aurelia per arrivare il prima possibile a casa e mangiare un boccone perchè alla nove ho l'appuntamento con i miei colleghi e con Kahn. Che pazzi che siamo! Litigo con chi non capisce, non comprende (e non ci prova neppure) la mia passione il mio modo di vivere che alterna un uomo blasé ad uno fin troppo borderline. Litigo ma sono convinto che non sbaglio nel continuare a credere a questo mio lavoro e soprattutto a continuare a essere convinto che la mia sensibilità non vada lasciata in pasto alla corruzzione al cattivo gusto.Chi ci da il coraggio e la forza di fare le ore piccole oltre che per un concorso o un progetto che non torna ...anche per discutere di architettura? La nostra passione viscerale, la nostra poesia nell'affrontare questo lavoro meraviglioso, frustrante e accattivante alla stesso tempo..la consapevolezza che prima di noi ci sono stati uomini, architetti, che ci hanno creduto, hanno continuato a lottare per un "idea". Persone come Kahn che hanno lasciato il segno. Noi non lo lasceremo, non abbiamo tale presunzione, ma in fondo crediamo alle nostre idee, al nostro impegno e forse questo lo abbiamo imparato e dobbiamo impararlo dai grandi maestri.Buona visione, buona lettura...

Giacomo Airaldi.

p.s. grazie a mario, francesca, milo perchè rendono possibile ogni giorno tutta questa magia!

All'ombra della luce bianca

di Mario C. Rossi

Il film di Natanhiel Kahn “My Architect” è un inganno.
È un piacevole inganno perché dietro ad un’apparente ricerca documentaria sulla vita del padre, uno dei figli illegittimi di Louis Kahn, Nathaniel Kahn, articola e costruisce una storia, quasi un viaggio di indagine, che scorre attraverso una vita raccontata, forse inventata o ancor più sperata, e percorre cadenze narrative personalissime fino a giungere ad un finale compiuto e commovente che sicuramente poco ha da vedere con un semplice documentario.
Il finale di My Architect, seppure celato dietro ad una conclusione di sicuro impatto emotivo, è un momento da cui parte una ricca tessitura di riflessioni contaminate da un seducente intreccio di contenuti intellettuali, sentimentali, familiari, personali.
La visione di questo film induce a riflettere su un architetto la cui opera, sebbene conosciutissima, è sfuggita alle rapaci catalogazioni critiche caratteristiche della seconda metà del Novecento, e pertanto lasciata decantare negli spazi della memoria più intimi e forse meno esplorati.
Louis Kahn è raccontato come un personaggio esistito molti secoli prima, il quale lasciò un’opera letta oggi come fosse disegnata da un classico del passato la cui biografia dovesse essere ricostruita attraverso testimonianze aliene alla sola opera grafica.
In parte è davvero così: Nathaniel, quasi scadendo in una amara personale istruttoria sulle motivazioni che tanto segnarono la sua sofferenza di bambino, corre il viaggio di ricerca attraversando il mondo che accoglie le opere del padre, adottando la tecnica dell’intervista tipicamente americana scandita da profondi intervalli di riflessione e da curiosi siparietti dal sapore intelligentemente yankee. Uno su tutti: dopo l’episodio su “la verità sul bastardo”, è memorabile la dissacrante sequenza della passeggiata del bastardo Nathaniel con un paio di algidi barboncini cotonati di pura razza.


Tuttavia la testimonianza diretta di molte persone che conobbero “Lou” Kahn conferisce la giusta collocazione temporale del soggetto della ricerca, e soprattutto costruisce una dinamica mitica alla definizione del personaggio Louis Kahn protagonista nel film forse ancor più delle sue opere.
Per questo non sono sicuro che egli approverebbe questo aspetto del film, ma questo è un altro discorso.
Il film tratta quindi la ricerca di una collocazione di un personaggio che agli occhi del figlio ha assunto nel tempo differenti ruoli e scomode posizioni personali ma, oltre a questo aspetto che costringe alla fine lo spettatore ad una inevitabile amarezza, quello che emerge è il vero messaggio architettonico di Louis Kahn.
La concezione dell’architettura come uno sviluppo di articolazioni formali mirate all’integrità, alla modellazione di coerenti sintesi plastiche come saggio progettuale, all’utilizzo della materia e non dei materiali come unico inequivocabile mezzo espressivo.
Il film ad un tratto riferisce che la architetture di Kahn in Bangladesh durante la guerra non furono bombardate in quanto furono scambiate per antichi edifici monumentali. Ecco, il vero obiettivo del progetto architettonico kahniano è squisitamente espresso da questa considerazione.
Kahn ci dimostra che l’architettura è tutto, non sono solo degli edifici.
L’architettura progettata è un saggio di composizione di forme, luce e attività umane accarezzate dall’ambiente generato dalla capacità del progettista; non è un caso che più volte le persone intervistate da Nathaniel Kahn definiscono Louis Kahn come un artista.
L’architettura secondo Kahn, quella progettata, è un dialogo con Dio, e come tale, è un saggio d’arte.


Ciò che il film “My Architect “ riesce a far comprendere chiaramente è quindi un concetto semplice, come semplici sono sempre le intuizioni indovinate: Louis Kahn è un architetto puro, non contaminato dalla moda novecentesca di aderire alle banalizzazioni del linguaggio e dei linguaggi. E’ un architetto totale, nel senso più radicale sia dal punto di vista privato che da quello disciplinare; egli si creò il suo modo di affrontare la problematica del linguaggio invertendo il ruolo del linguaggio stesso, negandolo quasi al punto di negare l’identità del luogo.
L’architettura di Louis Kahn, che forse essa stessa è stata il vero Louis Kahn ancor più della sua vita, è l’idea di unificazione della semplicità del materiale con la volontà di comporre un insieme progettato. Una unificazione che rimane silenziosamente disponibile a chi vuole leggere le sue opere secondo il registro della fedeltà alla disciplina progettuale come utilizzo del materiale per comporre la forma; una unificazione che pare ruvida e priva di appeal a chi intende l’architettura come una applicazione di materiali su forme e idee dettate dalla tendenza fashion del momento.
Louis Kahn ci ha fatto credere di aver inventato un linguaggio personale. Invece no; ci ha insegnato che il linguaggio viene dopo, quasi per ultimo rispetto alle ragioni plastiche del progetto, ma non ce lo ha mai voluto dire.
In fondo, anche l’architettura di Louis Kahn è un inganno.

 

Le ferite di Louis Kahn

di Milo Matteo Marrancone

Il sipario è sceso. Il film di Nathaniel Kahn “My Architect” è terminato, ma nessuno si alza.
Tante idee e pensieri affollano la mente…

Conoscevamo, in grandi linee, la vita e le opere “dell’artista assoluto”, ma è stato interessante e commovente sentir raccontare da Nathalien, oltre la propria storia di figlio illegittimo alla ricerca del padre, delle sue radici, anche la strana, difficile e personale vita del suo genitore, la cui trama è ricca d’elementi che la rendono simile ad un romanzo ottocentesco.

Una vita, una storia che nel film “inizia” proprio con la morte del protagonista ed egli riesce benissimo a comunicarci lo stupore, di quando scopre che il suo nome non compare vicino a quello del padre, della sorella.

Immagini e sensazioni si accavallano nella mente e le opere del nostro protagonista, definite opere d’arte, riappaiono nella loro globalità e lucentezza. Con quanta passione Louis Kahn parla d’architettura, progetta le sue costruzioni!
Egli non crede nei sentimenti, non crede nei suoi figli legittimi o illegittimi, perché disprezza il proprio viso deformato…non ama ciò che naturalmente è parte di sé e continuerà a vivere nel tempo. Ma, qualcuno afferma che voleva realizzare monumenti eterni…e anche su di loro sono visibili le ferite, quasi volesse rendere le sue costruzioni, simili a lui… e con la stessa passione di un padre, ama le sue opere sopra ogni cosa.

La grande fortuna di Louis Kahn è di aver scoperto l’amore, la passione per l’Architettura e, senza ombra di dubbio, aver avuto una madre che diceva e pensava con ostinazione: «Louis, dalle ferite che segnano il suo volto, trarrà la sua forza…». Inoltre, come testimoniano gli intervistati e l’architetto indiano, nell’imponente, maestoso e bellissimo Palazzo del Parlamento a Bangladesh, affermando: «L’abbiamo amato per la sua bellezza e dolcezza interiore.
Egli era come un bambino».

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Gli 'autori
Mario Clemnte Rossi e nato a genova il 17 giugno 1969.
F ormato a genova con guido campodonico e francesco venezia, laureato in architettura a genova ha frequentato lo studio di scultura di lorenzo garaventa e lo studio di architettura renzo piano building workshop, collaboratore ai corsi di progettazione architettonica del prof. arch. guido campodonico dal 1994 e organizzatore del Seminario internazionale di Progettazione a Cervo consulente della Diocesi di Albenga Imperia dal 2001, architetto freelance dal 1996. Crede fortemente nella qualità del progetto di architettura contemporanea e per le sue realizzazioni si rimanda al sito dello studio che attualmente dirige.Inutile negare che Le corbusier è l'indiscusso suo grande maestro, ieri oggi ma sopratutto domani!

Milo Matteo Marrancone Il mio nome è Milo Matteo Marrancone.
Fin qui niente di speciale, ma dovete sapere che quando nuotavo beato nel ventre di mia madre, una cosa era già certa: «Il nome che mi aspet-tava sulla Terra… era un nome che iniziava con la lettera «M!».
Perché? Vi chiederete voi, se non la pensate come mia madre venti-nove anni fa… Perché mia madre credeva di aver fatto una grande e spiritosa scoperta: «Molte delle più famose personalità artistiche… hanno l’iniziale del nome uguale al cognome!». Affermava e per essere sicura che la cosa funzionasse… ha raddoppiato i nomi di battesimo!
Con questo ho detto tutto a proposito del mio nome.
Mentre ciò che ha caratterizzato questi miei primi anni di vita, sono stati i cambiamenti di residenza della mia famiglia: sono, infatti, nato a Monaco di Baviera. Sicuramente ciò ha contribuito e aumentato il mio amore per i viaggi e l’interesse per le città!
In questa short biography aggiungo che, dopo cinque anni nell’istituto tecnico per geometri, mi sono iscritto alla facoltà d’architettura di Pescara, scelta per il mio interesse, tuttora immutato, verso l’arte e l’architettura di tutti i tempi.
Contemporaneamente, ho collaborato con lo studio del prof. arch. Sandro Ranellucci di Roma, in attività didattiche nel campo del restau-ro.
Nel periodo universitario, ho partecipato a diversi concorsi fotogra-fici, di pittura, d’architettura, tra cui al Concorso Nazionale per idee d’Architettura: «Tra Architettura e la città, l’Università abitata» nelle Murate di Firenze. Questo progetto è stato segnalato: «Per il trattamen-to del vuoto come spazio abitabile, per l’attenzione alla conferma e al continuo superamento dal limite imposto dal “muro” tra l’edificio e la città».
Nei ritagli di tempo, di questo periodo di studio, ho visitato le più importanti capitali europee ed ho trascorso un breve periodo a New York…sei mesi prima dell’undici settembre!
Da un anno mi sono laureato in architettura alla facoltà G. D’Annunzio di Pescara-Chieti con tesi in Disegno e Rappresentazione dell’Architet-tura della città e del porto di Pescara con relatore il prof. arch. Livio Sacchi.
Altre esperienze lavorative, non degne di nota, sono seguite ed infi-ne ora collaboro con serietà e piacere nello studio rossi, studio di pro-gettazione. Diano Marina (IM).


Studio Rossi
www.studiorossi.org
e-mail:rossi@archandweb.com

 
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Ideazione e realizzazione Airaldi Giacomo - Luogo di pubblicazione: Italia - Hosting by: Aruba.it- Update: 15-Feb-2006